Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm
Il Kurdistan turco cerca a fatica di risollevare la sua economia approfittando del processo di pace in corso con Ankara Lo stato di guerra è durato 35 anni, e adesso la ricostruzione è appesa al sottile filo del processo di pace avviato dal governo Erdogan:…. la città di Van, nell’estrema parte orientale dell’Anatolia, è diventata il simbolo della difficile ricostruzione dell’economia e della vita sociale della popolazione curda, a un anno dall’apertura dei negoziati nel dicembre 2012 con il leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), Abdullah Ocalan. Il cessate il fuoco fra governo e guerriglieri, proclamato a marzo dell’anno scorso, ha permesso secondo il “SeTimes Turkey” di ricominciare a creare un tessuto produttivo in quella che è considerata l’area più depressa della Turchia, anche a causa del devastante terremoto che nel 2011 ha provocato la morte di 644 persone. Il punto di partenza sembra essere la Jinda company, la prima fabbrica che ha raggiunto un obiettivo fino ad ora impensabile, ovvero quello di esportare i suoi prodotti all’estero. La fabbrica produce sette tipi di sapone raggiungendo Iraq, Georgia e persino l’Europa. Il proprietario, Murat Yasar, spiega con orgoglio al “SeTimes” che nello stabilimento sono impiegate 10 donne, comprese un ingegnere e una farmacista. “Gli abitanti dei villaggi vicini – dice Yasar – ci vendono le erbe che raccolgono nelle montagne, e in questo modo, indirettamente, riusciamo a dare lavoro ad altre decine di persone”. Necla Isleyen porta regolarmente le erbe medicinali fino a Van, e finalmente, dice, quello che ha fatto per anni è diventato un lavoro che le permette di mantenere la famiglia. “Fabbriche come questa – racconta – hanno un grande significato per noi, ma adesso abbiamo bisogno anche dell’aiuto dei nostri uomini che sono sempre dovuti emigrare lontano”. Fra questi c’è Mehmet Hirsli, che da anni lavora come marinaio sui mercantili. “D’inverno lavoriamo per lo più nel Mar Nero, mentre d’estate ci dirigiamo verso il Mediterraneo”, dice al ‘SeTimes’. “Al massimo riesco a trascorrere a casa un paio di mesi all’anno, e non voglio più fare questa vita. Qui a Van – conclude – ce ne sono migliaia di storie come la mia”. Le speranze di sviluppo devono fare i conti con gli ostacoli che il processo di pace incontra, in un contesto condizionato dalle elezioni turche, sempre più vicine, e dagli scandali per corruzione che stanno travolgendo la dirigenza di Ankara. A fine agosto il Pkk ha congelato il processo di pace, accusando Erdogan di non rispettare gli impegni presi sul fronte di una maggiore autonomia, dei diritti linguistici e per la liberazione dei guerriglieri che si trovano nelle carceri del Paese. A novembre, in coincidenza con l’incontro storico fra Erdogan e il leader dei curdi iracheni Barzani a Diyarbakir, alcuni guerriglieri del Pkk hanno attaccato un convoglio militare, senza però provocare vittime o feriti. La tensione si è stemperata, non prima però che il presidente turco Abdullah Gul lanciasse un avvertimento alla controparte. “L’esercito – ha detto Gul – è sempre in allerta e risponderà ad ogni violazione”. Il pacchetto di riforme democratiche presentato dal governo il 30 settembre ha disatteso le aspettative dei curdi, in particolare nel punto che riguarda il diritto alla propria lingua, perché la normativa prevede l’inserimento di corsi solo presso gli istituti privati e non nelle scuole pubbliche. L’ultimo rapporto dell’organizzazione internazionale Human Rights Watch dà invece una valutazione positiva delle novità introdotte dal governo, sottolineando comunque gli sforzi per far avanzare il dialogo e soprattutto l’assenza di vittime fra le due parti nel 2013. Nonostante il risultato, il report non manca di sottolineare che “dei passi più consistenti potrebbero influire sulle cause primarie del conflitto, e aiutare a conquistare maggiori diritti per tutte le minoranze etniche presenti in Turchia”. La linea del governo, nelle sue aperture ma anche nei suoi limiti, trova conferma nelle parole del rappresentante per la Giustizia nella provincia di Manisa. In un’intervista al “SeTimes”, Selcuk Ozdag ribadisce che la questione curda è una delle massime priorità, ma “esistono delle linee invalicabili nel processo di democratizzazione. Ad esempio – dice – non ci sarà alcuna possibilità di costituire un’autocrazia nelle province, e neppure l’uso della lingua materna nelle scuole compare nella nostra agenda politica”. Il percorso, pur accidentato, ha rappresentato per i cittadini di Van un’occasione che hanno cercato di sfruttare al massimo in questo anno appena trascorso. Oltre alle nuove iniziative come la fabbrica di saponi di Murat Yasar, l’area ha assistito alla fioritura di settori tradizionali come l’allevamento di bestiame. Fino agli anni ’90 l’Anatolia orientale era uno dei maggiori produttori di carne per tutta la Turchia, ma gli allevamenti hanno subito un crollo verticale quando i pascoli sono stati dichiarati zone di guerra. Le restrizioni sono state tolte all’inizio del 2013, e da allora migliaia di appezzamenti sono stati riaperti ai pastori e agli allevatori locali. Attualmente, secondo le cifre del “SeTimes”, sono 75.000 le persone che lavorano nel settore con 3 milioni di capi di bestiame. Le cifre, secondo i pastori più anziani, non si avvicinano neppure a quelle del passato, ma rappresentano pur sempre un segnale positivo. “Il futuro del settore dipende esclusivamente dal processo di pace in corso”, dice Naif Suer, presidente dell’Associazione allevatori e macellai di Van. “La ragione principale del nuovo sviluppo è la fine delle restrizioni dovute alla guerra, e la creazione di un ambiente sicuro”. Per questo, dice Suer, i negoziati devono essere sostenuti da tutti. “Tutto è legato allo stesso problema – conclude – e se questo problema sarà risolto, potremo finalmente vedere dei giorni migliori”.
fonte:globalist
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