Sull’utilizzo della scritta “DONNA, VITA, LIBERTA’” per Cecilia Sala: Feminist washing o appropriazione indebita ?

Aggiornato il 09/01/25 at 07:26 pm

di Gianni Sartori———Vuoi per l’intrinseca bontà d’animo che mi contraddistingue, vuoi perché in fondo potrebbe essere non solo mia figlia, ma quasi mia nipote, avevo sinceramante sperato in una rapida soluzione del caso Cecilia Sala (nonostante Il Foglio sia tutto fuorché il mio quotidiano di riferimento)..
Tuttavia, vedendo in sovraimpressione all’ennesima trasmissione-dibattito sull’avvenuta liberazione, la scritta “Donna, Vita, Liberta’” francamente mi son girati i cosiddetti.
Direi che a tutto cìè un limite. Anche se lo slogan originariamante curdo era già stato “deturnato” e addomesticato in generica richiesta di “emancipazione femminile”. E pure utilizzato come sfondo per gli interventi di una parlamentare europea che non mi pare si sia mai sprecata più di tanto per la questione curda.
Come sottolineava Dastan Jasim “gli Stati dell’Unione Europea e della NATO si vanno appropriando di alcuni aspetti della lotta delle donne curde adottando una forma di “feminist washing”, utilizzandoi principi di “Jin, Jiyan, Azadi” per i loro interessi geostrategici e per la loro egemonia. Ma si guardano bene dall’opporsi alla Turchia”.
Ricordando come la ministra tedesca degli Affari Esteri Annalena Baerbock abbia “adottato Jin, Jiyan, Azadi per le donne dell’Afghanistan, ma la Germania non riconosce che questa filosofia proviene dai Curdi e dalla resistenza dei Curdi”.
Da parte su Elif Kaya (Centro di Jineologia di Bruxelles) precisava che lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi era nato in una lingua proibita, il curdo”. I l suo autentico significato è quello di “sostenere che una società in cui le donne non sono libere, non può essere considerata una società libera”.
(v.https://www.osservatoriorepressione.info/feminist-washing-appropriazione-indebita-della-lotta-delle-donne-curde/).
Ovviamente non riguarda soltanto l’Iran, ma anche la Turchia. Donne curde come Hevin Khalaf (v. https://www.osservatoriorepressione.info/due-anni-dal-barbaro-assassinio-un-ricordo-hevrim-xelef/) e Nagihan Akarsel sono state assassinate da mercenari filo-turchi in base agli stessi orrendi principi che hanno portato all’uccisione di Jina Amini in Iran.
Lo slogan “Jin, Jiyan, Azadi” riguarda ognuna di loro così come tutte le prigioniere politiche torturate, violentate, assassinate nelle carceri sia di Ankara che di Teheran. Non è roba da borghesia radical-chic: è un messaggio rivoluzionario scandito dalle combattenti curde e scritto sui muri delle celle.
La facciata del carcere di Evin (con quel colore giallino rancido, quell’aspetto da supermercato…) riproposta in televisione ogni qualvolta si parlava di Cecilia Sala era stato un continuo déjà-vu.
Immagine ormai familiare in quanto utilizzata varie volte per miei articoli (v. https://centrostudidialogo.com/2024/07/31/) sulle prigioniere politiche curde qui rinchiuse, comprese le condannate a morte.
Chissà se la rivedremo ancora in TV.
Infatti, mentre Cecilia Sala è tornata felicemente a casa (buon per lei naturalmente), altre donne militanti per i diritti umani e per il diritto dei popoli (anche giornaliste) rimangono recluse in condizioni indegne. A Evin come in tante galere sia iraniane che turche (per saperne di più sulle violazioni dei diritti umani in novanta prigioni turche consultare il documento diffuso in gennaio dalla Federazione delle Associazioni di Assistenza Giuridica e di Solidarietà con le Famiglie dei Prigionieri, MED TUHAD-FED e dall’Associazione degli Avvocati per la Libertà, ÖHD).
In questi giorni sarebbe poi stata confermata la condanna a morte (per “ribellione”) della femminista curda Pakhshan Azizi detenuta proprio a Evin (e rischia lo stesso destino un’altra attivista curda, Verisheh Moradi). Del resto sono state almeno 31 (quelle accertate, dati per difetto) le donne impiccate in Iran nel 2024 secondo l’Ong Iran Human Rights (per un totale di 241 negli ultimi 14 anni).
Così come – in base ai dati forniti dalla piattaforma femminista Kadın Cinayetlerini Durduracağız Platformu (KCDP) – almeno 394 donne (numero per difetto, si tratta solo di quelle accertate) sono state uccise in Turchia nel corso del 2024. E su decine e decine di altri casi aleggiano forti sospetti. Almeno 19 quelle assassinate in dicembre (e ben 33 casi “sospetti”).
E sempre in Turchia, nel corso del 2024 (dati forniti dall’Associazione delle Donne Giornaliste di Mesopotamia- MGK) 30 giornaliste sono state aggredite, dieci assalite in casa loro, otto convocate per essere interrogate dalla polizia, almeno quattro (per altre fonti sette) incarcerate, ben 45 sottoposte a torture, 17 assassinate. E’ andata meglio ad altre 45 a cui si è soltanto impedito di svolgere il proprio lavoro.
Tra gli ultimi episodi, l’arresto avvenuto il 7 gennaio della giornalista curda Derya Ren mentre era al lavoro nel quartiere Belqis di Dîlok.
Per non parlare del fatto che Ankara sta impedendo ai familiari della giornalista curda (ma cittadina turca) Cihan Bilgin, assassinata in Rojava da un drone turco, di riportarne il corpo in Turchia (nel Kurdistan del Nord, Bakur). Così come avviene per il giornalista curdo Nazım Daştan ucciso nelle stesse circostanze.
Sarebbe cosa buona e giusta se ora Cecilia Sala, consapevole di essere comunque una privilegiata (il padre, già senior advisor della banca JP Morgan, è attualmente amministratore indipendente a Mps) e spendendo a fin di bene la notorietà acquisita, decidesse di farsene carico, scrivere, denunciare. Mi pare il minimo.
Gianni Sartori