“HO LASCIATO IL FUCILE IN MONTAGNA” INCONTRO CON YUKSEL GENC

Aggiornato il 29/04/24 at 09:52 pm

di Laura Schrader scrittrice e giornalista«———– Quasi sempre la storia dei leoni è scritta dai cacciatori. Per smentire questo nostro detto popolare avevo deciso di scrivere per una volta la storia dalla parte dei leoni, anzi da parte di una leonessa». Così risponde Yuksel Genc a chi nel corso della presentazione del suo libro Ho lasciato il fucile in montagna. Diario del cammino di pace di una guerrigliera kurda domanda il perché della sua decisione di scrivere. «Per questo, mentre ero in carcere – continua Genc – ho scritto questo libro, usando pezzetti di matita e tutti i brandelli di carta che riuscivo a trovare. Mi ero predisposta dei nascondigli in cui buttare velocemente i fogli quando in cella all’improvviso irrompevano le ispezioni. Quando, qualche anno dopo, il libro fu concluso, consegnai i miei fogli al primo tra i miei compagni che uscì dalla prigione. » A Istanbul nel 2006 quei pezzetti di carta diventano un libro intitolato Aggrapparsi alla pace. In appendice compaiono i contributi di personalità turche e kurde che combattono sul fronte dei diritti umani e civili come lo scrittore e editorialista Ahmet Altan, l’avvocata Eren Keskin, i coniugi editori Zarakolu, l’attivista Akin Birdal e Yasar Kemal, scrittore di fama internazionale. In Italia il libro, tradotto e curato dal suo scopritore, Aldo Canestrari, è pubblicato dalle Edizioni Punto Rosso che con la Odv Fonti di Pace ha promosso l’arrivo in Italia dell’autrice per la presentazione in alcune città di Ho lasciato il fucile in montagna e di Berxwedan. La resistenza del popolo kurdo contro il genocidio di Erdogan, che del libro di Genc è continuazione e complemento. L’impresa narrata nel libro ha segnato una svolta nella storia della lotta del popolo del Kurdistan per la propria esistenza e aveva aperto un percorso di dialogo per la soluzione pacifica della questione kurda in Turchia e per il rispetto dei diritti di tutte le minoranze, nato ufficialmente nel 2009 e concluso tragicamente nel 2015.
Yuksel Genc era una giovanissima guerrigliera nell’esercito di liberazione del Pkk quando, nell’ottobre 1999 con altri sette combattenti, cinque uomini e due donne, accogliendo la proposta del loro leader Abdullah Ocalan, scese dal quartier generale sul monte Kandil per consegnarsi all’esercito nemico in un concreto gesto di pace, sapendo che la aspettavano tortura e carcere. Sono stupita dalla qualità letteraria di questo libro e dalle verità che ci consente di scoprire. Esistono libri sulla guerriglia del Pkk: ne parla Sakiné Cansiz nella sua Autobiografia (e io stessa trent’anni fa ho raccontato la storia del Pkk nel libro I fuochi del Kurdistan) ma Yuksel Genc ci accompagna all’interno di quello che vivono, sentono, comunicano tra loro le guerrigliere e i guerriglieri sul monte Kandil con una narrazione che ha la forza e la vitalità di un’esperienza vissuta intensamente. In Ho lasciato il fucile in montagna Yuksel Genc poeticamente parla dell’affetto che la lega alla natura nella quale è immersa – le foreste, le rocce, le sorgenti, il cielo della sua terra, e rivela la fiducia, la speranza, la gratitudine nei confronti del leader del suo movimento, paragonato a Prometeo. Nell’affrontare con il pensiero il passo che ha deciso di fare , consapevole che si tratta innanzitutto di una rivoluzione mentale, la giovane guerrigliera si preoccupa non tanto della prospettiva di interrogatori, tortura e carcere, di cui discute anche scherzosamente con le altre due compagne, ma della reazione della sua gente: l’auto-consegna al nemico non fa parte della cultura del Kurdistan e in generale del Vicino Oriente, e il loro gesto potrebbe non essere compreso, anche condannato. D’altra parte Yuksel Genc, nome di battaglia Jiyan che significa Vita, si identifica nelle speranze della sua gente che da un secolo combatte contro l’annientamento. Il suo libro è un canto d’amore per la vita e per la pace attese da oltre un secolo dal popolo del Kurdistan .
Yuksel Genc è una donna minuta, ha la pelle chiara e luminosa delle rosse e nel suo sguardo sereno a volte lampeggia un guizzo di ironia. Mentre osservo le sue piccole mani dalle dita sottili cerco di immaginarle strette sull’impugnatura di un’arma. Era molto giovane quando nel 1995 era salita sul monte Kandil, il padre era operaio, la mamma era morta quando lei era bambina. Dopo la clamorosa autoconsegna del suo Gruppo per la Pace nell’ottobre 1999, era rimasta per sei anni in carcere. «Per cinque anni in montagna avevo dormito sotto le stelle, in carcere ero chiusa tra quattro mura e vedevo un po’ di cielo tra le sbarre, questa era per me la cosa più dura ma, come dice un poeta turco, anche la separazione fa parte di una storia d’amore. Anche la reclusione fa parte della libertà e della pace». Tornata in libertà, Genc aveva lavorato come giornalista; oggi è ricercatrice nel Centro di Ricerche Sociologiche sul campo del comune di Amed (l’antico nome con cui i Kurdi chiamano Diyarbakir) e continua a pubblicare come opinionista. I suoi articoli sono acuti, profondi e quando è il caso conditi di ironia nei confronti delle più plateali contraddizioni del potere. «Per il mio lavoro di giornalista sono in attesa del processo, rischio venti anni di reclusione. Ma non vorrei lasciare la Turchia. Io lotto per la pace, e anche il carcere potrebbe essere uno degli strumenti di resistenza».
Il suo libro in Italia è pubblicato con la mia postfazione, che si intitola In guerra per la pace. Queste due parole racchiudono la vita di Yuksel Genc. In carcere lei e i suoi compagni avevano scritto ogni giorno lettere e appelli sulla necessità del dialogo ai vertici civili e militari dello stato, ai parlamentari, alla magistratura, alla stampa alle associazioni di Turchia e Europa. Dopo la reclusione, ha continuato a combattere con tutti gli strumenti possibili per invitare al dialogo tutte le componenti della realtà turca, riuscendo insieme ai suoi compagni di lotta a ottenere ascolto dai parlamentari di numerosi partiti e da altri organismi istituzionali e a convocare assemblee molto partecipate in diverse città. «Con la stessa determinazione con cui abbiamo preso le armi abbiamo lasciato le armi perché vogliamo lottare con metodi pacifici per costruire un percorso di dialogo e amicizia che consenta ai Kurdi e alle minoranze di vivere ciascuno con la propria identità e la propria autonomia non soltanto in Turchia ma anche negli altri tre stati tra i quali è diviso il Kurdistan– afferma Genc – e questa lotta ha dato i suoi frutti nel Rojava». L’Amministrazione Autonoma del Nord Est della Siria, Rojava per i Kurdi, nata agli inizi della guerra civile, che si autogoverna applicando il confederalismo democratico teorizzato da Ocalan, è considerata nel mondo un esempio di valorizzazione del ruolo della donna e di rispetto di tutte le forme di diversità. Non solo. Anche la nostra Rivoluzione delle Donne ha trovato ascolto internazionale, lavoriamo insieme ai movimenti femminili di diversi paesi nei cinque continenti. «Resistere nella lotta per la pace è molto più complesso della resistenza armata. Nella lotta armata ci sono soltanto due prospettive: uccidere o morire. Lottare restando in vita e tenendo in vita le persone, questa è una sfida molto più difficile ma anche molto più importante, dovesse durare anche mille anni. Dopo il carcere per mantenermi sono stata giornalista e oggi sono ricercatrice, ma sono sempre membro di quel Gruppo di Pace del 1999».