Aggiornato il 03/05/18 at 04:37 pm
Il 2 agosto del 1990 le truppe di Saddam Hussein invasero il Kuwait, innescando la catena di eventi che portarono poi in sei mesi alla devastante “Tempesta nel deserto”, la “Madre di tutte le battaglie”. Sono passati vent’anni, ma Iraq e Kuwait sono ancora ai ferri corti, sulle compensazioni che Baghdad è stata condannata dall’Onu a pagare, ma anche su quelle che gli iracheni chiedono ora all’ emirato, per la guerra del 2003.
Giovedì scorso il comitato dell’Onu incaricato di gestire i fondi iracheni destinati al Kuwait ha consegnato una nuova tranche di 650 milioni di dollari ai kuwaitiani, che così ne hanno finora incassati 30,1 miliardi. Ne rimangono ancora da versare 22,3 miliardi, che devono essere reperiti in massima parte con la specifica “tassa” del cinque per cento imposta a Baghdad sui proventi della vendita del petrolio iracheno. «I kuwaitiani dovrebbero sapere che Saddam non chiese il parere degli iracheni quando invase il Kuwait. È giunto il momento di cancellare il debito e guardare avanti, nell’interesse reciproco», ha detto una influente deputata del blocco sciita iracheno, Samira al Musawi.
Un analista politico dell’università di Baghdad, è stato più esplicito, affermando che «il parlamento kuwaitiano continua a gestire la cosa in termini di vendetta beduina».
In Iraq c’è anche chi chiede al Kuwait i danni per aver consentito alle truppe americane e della coalizione di usare il proprio territorio per lanciare l’offensiva del 2003, che infine ha spodestato Saddam. Coloro che ora chiedono i danni al Kuwait «non dovrebbero dimenticare che ora non sarebbero al potere se non fosse stato per gli Usa: la loro richiesta non ha senso», ha replicato alla tv al Arabiya un famoso scrittore kuwaitiano, Fuad al Hashem.
Sembra quasi che due decenni siano passati invano, scrivono diversi osservatori in questi giorni in cui si avvicina il 20/mo anniversario dell’invasione. Edmund O’Sullivan sull’autorevole rivista finanziaria mediorientale Meed, va anche oltre, ricordando i risultati, anche politici, di quella guerra.
Molti ricordano pure che nei sei mesi successivi la diplomazia internazionale si spese senza tregua, ma invano, per evitare il peggio. Il ministro degli esteri iracheno, il cristiano Tareq Aziz, fece la spola tra le maggiori capitali del mondo, cercando di trovare un via d’uscita onorevole.
«Volevamo la pace», ha poi affermato Saddam Hussein 13 anni dopo, nel 2004, negli interrogatori a cui venne sottoposto dall’ Fbi, di cui le minute sono state rese note lo scorso anno. Cruciale fu un incontro con l’allora segretario di Stato Usa James Baker a Ginevra, nel gennaio del 1991. «Dalla prospettiva della leadership irachena l’incontro aveva lo scopo di sfruttare ogni possibilità di pace», ha scritto in quelle minute l’agente speciale dell’Fbi George Piro, che condusse gli interrogatori con Saddam. Ma, «secondo Hussein, Baker non fornì alcuna soluzione (…) al contrario, dettò delle condizioni ad Aziz che gli Usa volevano fossero prima applicate dall’Iraq. Altrimenti, disse Baker, vi riporteremo all’era preindustriale».
Durante il mese e mezzo di guerra che ne seguì, le forze armate Usa fecero piovere su Iraq e Kuwait 88.500 tonnellate di bombe. Di fatto, il Paese venne riportato indietro di decenni, ma con tutte le penalizzazioni di una dipendenza postindustriale di un uso intensivo di energia e tecnologia, secondo quanto scrissero poi in un rapporto le Nazioni Unite.
Ancora oggi, il 23 per cento della popolazione irachena, anche a causa del successivo conflitto e della violenza diffusa in tutto il Paese, vive al di sotto della soglia di povertà, con di 2,2 dollari al giorno a persona, sempre secondo l’Onu.
Quanto alle speranze suscitate dalla capitolazione irachena nel 1991, che fece parlare di “Nuovo ordine mondiale”, molti, secondo O’Sullivan, «ancora si chiedono se le opportunità create dagli eventi di quella estate non siano state sprecate. E alcuni dovrebbero chiedersi se il prezzo pagato da allora da molti non sia stato troppo alto».
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