Aggiornato il 06/02/22 at 10:14 pm
di Mattia Gallo (Global Project) —- “Avete fatto voi questo orrore, maestro?”, chiese un ufficiale nazista a Pablo Picasso, rivolgendosi al dipinto di Guernica. La risposta del pittore spagnolo fu “No, lo avete fatto voi”. Una risposta che rimase nella storia, insieme ad un’altra considerazione del pittore andaluso: “No, la pittura non è fatta per abbellire gli appartamenti. È uno strumento di guerra offensiva e difensiva contro il nemico”.
Queste considerazioni del maestro del Novecento sulla pittura e sull’arte in generale mi sono venute in mente mentre leggevo il fumetto dell’attivista, giornalista e artista curda Zehra Dogan “Prigione N°5”, in particolare pensando al suo disegno che ha ritratto la distruzione da parte dell’esercito turco nel 2016 della città del Kurdistan turco, motivo per il quale, insieme al suo attivismo, l’artista ha scontato quasi tre anni di carcere in un regime durissimo in piena violazione dei diritti umani. “E tutto perché avevo disegnato la distruzione di Nusaybin. Sono loro ad aver distrutto e ritratto la città. Io l’ho solo disegnata” – è il commento di Dogan che si lega, insieme alla sua opera dal valore politico e dall’impatto visuale forti, alle parole di Pablo Picasso prima citate.
“Prigione N°5” è un fumetto pubblicato in Italia nel 2021 dalla casa editrice Becco Giallo. Realizzato da Dogan nei tre anni di prigionia con l’espediente di farsi lasciare libero il retro dei fogli di una corrispondenza epistolare trattenuta da dentro il carcere con un’amica.
La seconda metà del 2015 è l’anno in cui il regime del presidente turco Erdogan porta avanti la sua rappresaglia militare contro le realtà organizzative e le comunità curde presenti in Turchia, interrompendo i colloqui per la risoluzione della questione curda ed i negoziati con Ocalan. Tra il 2015 ed il 2016 i soldati dello stato turco hanno ucciso 500 persone curde e colpito militarmente le città del Kurdistan turco seminando distruzione ed una lunga scia di sangue.
In questo quadro avviene l’arresto dell’artista Zehra Dogan, che nel carcere darà vita ad un lavoro fumettistico che si presenta come particolare in cui più che di un fumetto vero e proprio si tratta di un’alternanza di tante tavole illustrate che riproducono soprattutto il mondo del carcere turco, e molti interventi scritti in cui la cifra giornalistica dell’attivista curda emerge in modo chiaro. Ed allora, la prigione numero 5 è quella del carcere di Dyarbakir, la capitale del Kurdistan turco, una prigione nota da decenni per le politiche repressive in essa praticate e le condizioni al limite della vivibilità.
Le donne curde sono molte, tutte stipate in spazi ristretti, ma la capacità di auto – organizzazione crea dinamiche di resistenza anche in condizioni estreme. Il lavoro artistico di Dogan abbraccia però un arco temporale lungo ricostruendo un pezzo di storia del popolo curdo di fine 900, e questo dà ancora maggiore valore politico alla sua opera – a mio parere anche più di quello artistico – visuale che comunque conferisce incisività espressiva al lavoro.
Si parla delle politiche di bruta ed efferata repressione nei confronti dei curdi da parte dello Stato turco a partire degli anni 80. Il 1980 è l’anno esatto del golpe militare in Turchia e l’anno in cui la prigione n°5 diventa tristemente nota per ospitare attivisti, guerriglieri e cittadini curdi che subiranno pratiche di tortura durissime disegnate nelle tavole del fumetto. La repressione continua anche negli anni 90, fuori e dentro le carceri turche, ma troverà anche moti di risposta da parte delle comunità e dei carcerati curdi capaci di creare un’eredità di lotta e di speranza. Nel corso della sua carcerazione il noto artista Banksy ha realizzato un murales a New York in difesa di Zehra Dogan, un’artista che ha visto esporre le sue opere in giro per il mondo e che nel 2020 ArtReview ha inserito tra i 100 artisti più influenti al mondo.