Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm
Ondata di bombe anti-sciiti:
73 morti a Baghdad
ASSEEL KAMAL*
baghdad
L’ America taglia, l’Iraq compra. Il ritiro delle truppe statunitensi da Baghdad ha creato uno spaventoso vuoto di sicurezza e il premier Nouri Al Maliki ha varato un ambizioso piano di rafforzamento delle forze armate . Ma sarà all’interno dell’esercito iracheno che si giocherà la partita sul mantenimento dell’unità del Paese. Il quadro politico lacerato dallo scontro sempre più aperto tra sciiti, la maggioranza religiosa che ha espresso il primo ministro, e sunniti. La messa in stato di accusa del vicepresidente, il sunnita Tariq Al Hashemi, fuggito in Kurdistan, è la manifestazione più clamorosa. La serie di attentati condotti dalle cellule di Al Qaeda contro obiettivi civili sciiti è la risposta degli oltranzisti che puntano a far rivivere gli anni terribili della guerriglia anti-americana, dal 2005 al 2008, questa volta contro sciiti e il governo di Al Maliki. Soltanto ieri sei attentati, uno kamikaze, nei quartieri sciiti a nord della capitale hanno fatto 73 morti e 150 feriti.
L’esercito iracheno, fondato nel 1921 dalla monarchia nata dalla ceneri dell’Impero ottomano, è, o dovrebbe essere, il baluardo contro le derive secessioniste e i terroristi. «Ma in ottant’anni di storia – racconta con amarezza il generale Ahmed K. A. (che non vuole pubblicare il nome perché teme per la sua vita) – questo è il periodo più difficile che abbia mai vissuto». Eppure il nuovo esercito del dopo Saddam, rifondato sette anni fa, era partito con lo spirito di annullare le differenze settarie: «Ricordo che cominciammo con un reggimento che portava il nome di uno dei più celebri imam sciiti, Musa bin Jafar, era guidato da un ufficiale sunnita di Mosul, e comprendeva moltissimi curdi e cristiani tra le sue file».
Lo spirito della riconciliazione è lontano. «Oggi chiunque dichiara di aver fatto parte del vecchio esercito – rivela il generale -, viene immediatamente arrestato, specie se sunnita». Per questo il generale, pensionato in anticipo, preferisce non uscire più di casa. «Abbiamo messo in piedi dodici divisioni, i comandi sono pieni di modellini delle nuove armi che il governo ha promesso di procurarci – continua -. Ma il problema non è quello. Il problema è che l’intera questione della sicurezza nazionale è nelle mani di un uomo solo: Al Maliki».
L’altro enorme problema è la regionalizzazione dell’esercito. Se una divisione è di stanza in una e provincia, diventa leale a quella provincia prima di tutto. Così, di fatto, si stanno creando la divisione di Mosul, la divisione di Al Anbar, quelle delle province sciite. Ogni divisione consiste in ufficiali e militari volontari che provengono dalla provincia, fatto aggravato dalla fine della leva obbligatoria nel 2003. «In queste condizioni – spiega il colonnello Hussein H. F. – non siamo in grado di difendere il Paese. C’è solo una divisione efficiente. Dipendere direttamente da Al Maliki ed è addestrata alla lotta al terrorismo. Ma i suoi uomini hanno combattuto con gli americani contro la guerriglia nelle province sunnite e oggi sono invisi alla popolazione».
Al Maliki ha però varato un programma di rafforzamento. L’esercito, che al momento possiede 2800 vecchi tank di fabbricazione sovietica e 140 moderni Abrams americani, sarà dotato di «360 blindati russi Bmp 1, 600 blindati leggeri polacchi De Zec 60 e altri americani». Per l’aviazione Al Maliki ha anche deciso di comprare una trentina di cacciabombardieri F-16 che dovranno sostituire gli oramai decrepiti Mig e Mirage dell’era Saddam.
L’ammodernamento sembra però più mirato a operazioni interne che a fronteggiare attacchi dall’esterno. «Mantenere l’ordine sarà l’imperativo numero uno – spiega il generale di brigata Abdel S. K. -. Le minoranze corrono rischi gravissimi. E il governo ci ha messo del suo, con il riconoscimento delle milizie sciite filo-iraniane, come Hezbollah-Iraq, la Lega dei giusti, il movimento Al Kabani. Tutti gruppi che sono emersi nella provincia di Diyala, al confine con l’Iran, che ora sta scivolando verso la semi-indipendenza». Con il ritiro delle forze americane, in effetti, nella provincia sono esplosi gli scontri armati fra sciiti e sunniti, dopo che il consiglio provinciale aveva approvato la modifica della statuto, e trasformato Diyala in una provincia autonoma federale.
«Al Maliki sta instaurando un regime autoritario – accusa Abdul Sattar Najem al Mahmoud, uno deileader della lista sunnita Iraqi di Iyad Allawi -. L’incriminazione del vicepresidente Al Hashemi è la conferma. Il processo democratico in Iraq rischia di collassare. E con esso l’intero Paese». Sul versante sciita, il partito di Moqtada Al Sadr chiede già a gran voce elezioni anticipate, e l’ala più oltranzista degli sciiti minaccia di togliere l’appoggio, e la maggioranza, al governo di Al Maliki. Con il ritiro americano tutte le faglie del fragile Stato unitario iracheno stanno venendo alla luce.
*Giornalista irachena scrive su «Al Sabaah»
LA STAMPA.it
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