Aggiornato il 26/03/21 at 10:37 pm
di Dario Nincheri ( East Journal) Per una settimana sono circolate voci sulla presunta morte di Abdullah Öcalan, detenuto sull’isola prigione di İmralı, a Bursa, nel nord-ovest della Turchia. La vicenda tocca più nervi scoperti, a partire dal regime carcerario particolarmente pesante a cui è sottoposto il leader curdo da ormai 22 anni, alla situazione generale nelle carceri in Turchia, soprattutto dopo il tentato golpe del 2016. Dall’ultima telefonata di Öcalan al fratello nel marzo 2020 nessuno aveva più avuto sue notizie. Solo il 16 marzo è arrivata la risposta delle autorità: “Öcalan è vivo e sta bene”.
Vent’anni di isolamento
Giunto in maniera rocambolesca in Italia il 12 novembre 1998, con l’aiuto del deputato di rifondazione comunista Ramon Mantovani, la sua presenza provocò una crisi diplomatica tra Ankara e Roma. Il governo italiano, allora presieduto da Massimo D’Alema, rifiutò inizialmente di estradarlo, ma poi cedette alle pressioni e non concesse l’asilo politico. Il fondatore del Partito Curdo dei Lavoratori (PKK) fu quindi costretto a lasciare il paese e, dopo aver cercato inutilmente protezione in diversi paesi europei, fu arrestato a Nairobi – dove era stato scortato dai servizi segreti ellenici – nel febbraio del 1999.
Condannato al carcere a vita, Abdullah Öcalan ha passato in isolamento la maggior parte del tempo trascorso in prigione e, durante i suoi quasi 22 anni di reclusione, gli è stato spesso impedito di incontrarsi o comunicare con i suoi avvocati. Le condizioni detentive particolarmente dure a cui è tuttora sottoposto sono più volte state denunciate dalla famiglia e da organizzazioni curde e internazionali.
Per otto anni i suoi legali non sono stati autorizzati a fargli visita, a causa di un divieto cessato solo nel maggio 2019, dopo mesi di scioperi della fame da parte di detenuti di tutto il paese e della deputata Leyla Güven del Partito Democratico dei Popoli (HDP). La prima e ultima telefonata che il detenuto Öcalan è riuscito a fare ai familiari, da 21 anni a questa parte, è quella di marzo 2020.
A seguito delle ultime voci sulla sua salute, gli avvocati hanno di nuovo insistito di poter avere un colloquio col loro assistito, ma la richiesta è stata sistematicamente rifiutata. Negli ultimi anni “abbiamo presentato 962 domande per incontrarlo, solo 5 sono state accettate”, ha dichiarato uno dei suoi legali.
La presunta morte
Non è la prima volta che circolano voci sulla morte del fondatore del PKK. I legali si sono preoccupati di denunciare le forti anomalie del complesso detentivo di İmralı: “il fatto che la prigione non sia un carcere standard, che può essere visitato regolarmente da familiari e avvocati, e da cui si possono ottenere informazioni sulla salute e sulle condizioni di vita dei detenuti, solleva serie e necessarie preoccupazioni”. Lo studio legale continua chiedendo “ancora una volta, ai responsabili politici e alle autorità, di agire in modo responsabile, abbandonando questa pratica di isolamento discriminatorio, applicata a una singola prigione e a un singolo gruppo di detenuti”.
Dopo giorni di silenzio, il 16 marzo l’ufficio del procuratore capo di Bursa ha annunciato che il leader del PKK Abdullah Öcalan è “vivo e in buona salute”. Il procuratore ha inoltre respinto tutte le accuse come “infondate” e ha esortato l’opinione pubblica a ignorare un certo tipo di notizie.
La situazione nelle carceri
La situazione nelle carceri in Turchia resta preoccupante, come testimoniato dal rapporto del 2019 del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa (CPT) – e non è migliorata dal 2016 quando, dopo il tentato golpe, le prigioni turche hanno iniziato a riempirsi di esponenti politici e attivisti per i diritti umani, come Osman Kavala a Selahattin Demirtaş. Solo venerdì scorso, 19 marzo, sono stati arrestati Öztürk Türkdoğan, presidente dell’İHD, la più prestigiosa organizzazione per i diritti umani turca, e domenica 21 marzo il deputato e attivista per i diritti umani Ömer Faruk Gergerlioğlu.
Una delegazione del CPT (recentemente tornata in Turchia) aveva avuto modo, durante la visita di 5 anni fa, di focalizzarsi con attenzione sulla prigione di İmralı. La questione dei contatti con il mondo esterno dei prigionieri era stata già allora oggetto di un lungo e intenso dialogo con le autorità turche, visto che le condizioni di detenzione erano andate irrigidendosi nel corso del tempo; dal luglio 2011 non erano state concesse visite di avvocati, dall’ottobre 2014 non aveva avuto luogo quasi nessuna visita da parte di familiari e, negli ultimi anni, si era arrivati persino a vietare la corrispondenza, ponendo i detenuti in una sorta di isolamento perpetuo. Secondo il CPT, tale situazione è in evidente violazione dei diritti umani. L’ultimo episodio riguardante Öcalan accende quindi un campanello di allarme, non soltanto riguardo la riprovevole situazione di singoli detenuti, ma sullo stato di salute generale del sistema carcerario turco.