Aggiornato il 03/05/18 at 04:37 pm
«In Iran lottiamo da anni per la democrazia. In alcuni momenti storici ci siamo arrivati anche vicini, ma senza mai ottenerla. La speranza c’è, continuiamo a lottare e le donne sono in prima fila in questa battaglia: la democrazia deve compiere molto tappe per essere raggiunta, ma se le donne vincono la strada è più corta. E la democrazia, in Iran, arriverà per mano delle donne».
A Genova per una conferenza nell’ambito della rassegna Genova città dei diritti, Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace nel 2003, dimostra una fiducia incondizionata nel futuro del proprio Paese: nonostante lei sia costretta da anni a un esilio forzato e nonostante la democrazia di Ahmadinejad mascheri una dittatura sempre più feroce, le sue parole strappano una vera e propria ovazione tra le numerose donne iraniane presenti a Palazzo Tursi.
Del resto, Shirin Ebadi – primo Nobel islamico della storia e prima donna presidente di tribunale in Iran -, incarna in sé tutte le contraddizioni di un Paese in cui le donne rappresentano il 65% della popolazione universitaria, studiano e diventano avvocati, medici, architetti, ma poi possono venire lapidate pubblicamente se sospettate di adulterio.
Eppure, prima della rivoluzione islamica del 1979, le donne iraniane avevano ottenuto il diritto di voto in anticipo svizzere. Una situazione cambiata radicalmente dopo l’ascesa al potere dell’Ayatollah Khomeini, quando la stessa Ebadi fu costretta ad abbandonare la magistratura giudicante per dedicarsi allo studio del diritto: «Nel nuovo contesto politico-religioso le donne vennere considerate deboli di sentimenti, quindi inadattte a giudicare», ricorda con amarezza la lady di ferro.
Incontriamo Shirin Ebadi nel tardo pomeriggio dopo la conferenza, visibilmente provata dopo una giornata iniziata presto: in mattinata l’intitolazione alla Fiumara della rotonda Donne di Tehran, poi il conferimento della cittadinanza onoraria, la laurea ad honorem in scienze internazionali e dimplomatiche e l’iscirizione onoraria all’albo degli avvocati.
In un contesto più tranquillo, ci illustra meglio il suo concetto di lotta, la via pacifista alla conquista della democrazia e il ruolo delle donne e dell’informazione all’interno di un regime autocratico.
«Nonostante la rivoluzione del ’79, le donne ricoprono ancora oggi ruoli importanti in ogni ambito della società civile. Hanno una formazione culturale solida, hanno lottato e sono riuscite a ottenere alcune leggi favorevoli, come la custodia del minore nel diritto di famiglia riformata dopo il mio Nobel; ma non basta: vogliamo la parità totale dei diritti. Democrazia e diritti delle donne sono due facce della stessa medaglia, per questo nel movimento femminista iraniano ci sono anche molti uomini che lottano per le donne, fino al carcere».
Una via rivoluzionaria che parte dal basso, come l’Onda Verde che lo scorso giugno invase per giorni le strade di Tehran in maniera assolutamente pacifica. Sottolinea il Nobel: «è possibile ottenere la democrazia attraverso la pace, anche perché è l’unica via percorribile: la guerra non è mai una buona soluzione, basta vedere cos’è successo in Iraq. È vero, Hussein è caduto, ma le pare che la gente sia felice ora? Il fondamentalismo si è accresciuto: la guerra non migliora nulla, semmai peggiora».
E qui emerge la posizione fieramente nazionalistica di Ebadi, contraria alle ingerenze della Comunità Internazionale e degli Stati Uniti, che durante il governo Bush avevano inscritto l’Iran nel cosiddetto Asse del male con Corea del Nord e – appunto – l’Iraq.
Per lei la soluzione è necessario che giunga dall’interno. «Migliorare i diritti umani è compito del popolo iraniano. Agli Stati esteri chiediamo solo di non aiutare il regime ad aumentare la censura».
Telefoni sotto controllo, invadenza dei servizi segreti, violazioni palesi dei diritti civili. In un paese controllato, internet rappresenta la risorsa più importante per organizzarsi e creare una coscienza critica nella popolazione. «L’informazione viaggia su internet, è il nostro mezzo più importante, per acquisire informazioni e per comunicare la nostra condizione. Ma possiamo contare anche sulle parabole e sulle trasmissioni radio che arrivano dall’estero». Un po’ come la nostra Radio Londra durante il Ventennio, allo stesso modo la presa di coscienza del regime passa tramite l’etere, aggiornato alle nuove tecnologie. «La Bbc e molte altre emittenti trasmettono programmi in lingua persiana e dal prossimo anno anche Euronews avrà un programma dedicato».
Shirin Ebadi, con la fiducia non ingenua nei media e nelle nuove tecnologie, dimostra la profonda conoscenza del mondo della comunicazione, uno strumento fondamentale per scardinare il regime. In quest’ottica, il prestigio del Nobel è un testimonial per una sicura risonanza mediatica: «Per me lavorare in Iran oggi è impossibile. Il mio contributo? Anche se tornerò, in questo momento penso di essere più utile all’estero che là».
La decisione di una donna che col proprio percorso ha segnato – e continua a segnare – un esempio per un intero Paese, ci lascia con un monito anche per noi italiani: «Iran e Italia hanno un passato simile, e il vostro esempio di resistenza ci ha sempre incoraggiato a lottare mumerosi per la democrazia. Spero che, ora che l’avete ottenuta, vi attiviate per conservarla: la democrazia è un fiore che deve essere curato ogni giorno. Non potete nemmeno dimenticarvi un giorno di curarlo, altrimenti appasisce».
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