Aggiornato il 03/05/18 at 04:35 pm
di Fabio Romano
Un viaggio nell’Anatolia orientale, ai confini con il Caucaso e l’Iran, dove la Turchia raccoglie il suo sorprendente patrimonio culturale, religioso, etnico, non senza spaccature anche dolorose come nel caso delle questioni curda ed armena. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Kemer pullula di russi. La spiaggia, la marina, i negozi di souvenir pacchiani del centro città del tutto identici a quelli di Jesolo o Lignano, i bar…Pare che i russi abbiano pacificamente raggiunto il sogno zarista dei mari caldi. Addirittura le insegne e i menù dei ristoranti, anche i più squallidi, sono in cirillico, mentre frotte di russi, accompagnati dalle loro donne biondissime ed abbrustolite fanno la ronda della città, tutti muniti di regolare braccialetto dei rispettivi hotel, a garanzia del trattamento all-inclusive. Alcolici compresi, s’intende.
Fa una certa impressione essere tornato nella cosiddetta civiltà, fatta di luci rutilanti, bar, negozi e ristoranti, mentre fino a qualche giorno fa respiravamo l’aria pura delle cime della Turchia orientale, assaggiavamo cibi curdi al confine con l’Iran, osservavamo con stupore l’Arpaçay, lungo il confine armeno, in un ambiente più prossimo al Caucaso che al Medio Oriente.
Solo dieci giorni prima siamo partiti da Trebisonda, sotto nubi basse e pioggia fine che s’infilava nel collo della giacca, in un ambiente di pini e boschi fitti, come in una vallata austriaca. Un çay bollente [tradizionale tè turco ndr] sotto lo sguardo rigido del monastero di Sumela ci ha rinfrancati, prima di riprendere la strada di montagna, avvolta in cumuli di nebbia e pioggia, in direzione di Erzurum e Kars e del confine con l’Armenia. Qui il paesaggio cambia abbastanza sensibilmente. Si fa più brullo e secco, mentre, a mano a mano che si avvicina la frontiera, la presenza di installazioni militari e check point diventa più visibile, per ricordare al viandante che si trova vicino ad un confine doloroso e combattuto. Tornano alla mente le immagini e la lunga diatriba storica sul massacro degli armeni, negli ultimi, convulsi anni tra il tramonto dell’Impero Ottomano e la nascita della Repubblica turca, ma anche la complicata questione del Nagorno Karabakh, dove i turchi appoggiano gli alleati azeri contro l’enclave armena. Per questo dal 1993 il confine turco armeno resta chiuso, nonostante i protocolli di stabilizzazione delle relazioni bilaterali, stipulati nell’ottobre 2010 a Zurigo tra Ankara e Yerevan.
Ad Ani finalmente, tra le chiese armene affrescate, le cattedrale georgiana e la moschea, ecco il confine: l’Arpaçay, le cui acque verdi e fredde scorrono in fondo al canyon che separa Turchia ed Armenia, mentre i soldati dei rispettivi paesi scrutano i vasti altopiani battuti dal vento.
Benvenuti in Caucaso
Tornati infine in città, a Kars, incontriamo le vestigia degli scomodi vicini di casa dell’Impero ottomano. Nel centro rimangono ancora numerosi palazzi bassi e tozzi costruiti dai russi, che tra il 1870 ed il 1920 avevano occupato questo distretto di confine, a lungo conteso all’Impero ottomano ed infine ceduto alla Turchia repubblicana con il trattato di Kars del 1921, assieme al distretto di Ardahan, 270 km più a nord. Come se queste zone non avessero vissuto abbastanza storia, è proprio qui che si consumò uno dei primi incidenti della guerra fredda, quando nel marzo 1946, nel tentativo di forzare una revisione degli accordi di Montreux del 1936 sul controllo del Bosforo e dei Dardanelli, i sovietici intimarono alla Turchia di restituire i distretti, costringendo così Stati Uniti e Gran Bretagna ad un duro intervento diplomatico contro di loro, prima avvisaglia di quella che doveva poi passare alla storia come la dottrina Truman. Come dare torto a Winston Churchill, quando affermava che certi posti producono più storia di quanta non riescano a digerire?
È pomeriggio quando dal confine armeno ci allontaniamo verso un altro confine. Partiamo alla volta di Dogubeyazit, a una trentina di chilometri dall’Iran. L’arrivo è difficoltoso. Mentre attraversiamo le montagne che la precedono, il motore inizia a fare le bizze, tossisce e geme e non si riescono a superare i 30 km all’ora. Il filtro della benzina è ostruito o rotto, ci spiega la guida, che tanto per tranquillizzarci, inizia a raccontarci che queste zone negli anno ’90 sono state teatro di imboscate e attentati da parte dei guerriglieri del PKK, seguiti ovviamente dalle rappresaglie dell’esercito turco.
Benvenuti in kurdistan
È ormai notte quando faticosamente entriamo a Doğubeyazıt, mentre la luna, sbucata infine da oltre le nubi, ci appaga con la vista della cima imbiancata del monte Ararat, di biblica memoria. Doğubeyazıt, città di frontiera: anche nel cuore della notte, i mercanti continuano la loro febbrile attività, i camion diretti nel vicino Iran (35 km) o in Armenia (via Azerbaijan) attraversano senza sosta il centro, mentre la città è intenta a celebrare l’iftar del Ramadan, spesso offerto gratis dalle famiglie abbienti della città.
L’indomani mattina partiamo presto alla volta del palazzo dell’emiro curdo Isak Pasha per poi proseguire in una lunga tirata fino alle rive del lago di Van, dove arriviamo oramai al tramonto.
Riparato il motore, dobbiamo tuttavia procedere lentamente. Il percorso è rallentato da infiniti tratti di lavori in corso. Da quando siamo partiti da Trebisonda, ma in particolare scendendo verso Van e Diyarbakır, si incontrano innumerevoli colline sbancate e sventrate, cave, corsi d’acqua deviati per far spazio a nuove e più ampie strade, nello sforzo di collegare il territorio abitato dai curdi con il resto del Paese, con effetti paesaggistici disastrosi (almeno per il momento). Certo le infrastrutture, parola che solitamente genera un’incontrollabile eccitazione negli ingegneri, sono utili, ma riesce difficile non pensare al contrasto con l’ambiente circostante e all’impatto di queste opere sulla società delle zone di montagna curde. Allontanandosi infatti dalle strade principali, non è difficile vedere le donne in abiti tradizionali piegate al lavoro nei campi e bimbi scalzi che saltellano sulle rocce dietro al loro branco di pecore smagrite. Lo sviluppo, ammesso che si sappia cosa intendere con questa parola, avanza a colpi di betoniera?
Il mattino successivo, visitata la chiesa armena dell’isola di Akadamar, immersa nelle sue acque alcaline, facciamo rotta verso Diyarbakır, porta della mezzaluna fertile. Si prova un certo piacere ad abbandonare Van, circondata dalle sue interminabili fabbriche di cemento per arrivare alla terra dei fiumi. Dall’impressionante cinta muraria di basalto nero che circonda Diyarbakır intravvediamo in lontananza il lento, millenario scorrere del Tigri. È l’inizio della fertile pianura mesopotamica.
A Diyarbakır davvero si possono toccare con mano il dramma del popolo curdo, che da trent’anni agita la vita della Repubblica turca, e il destino dei milioni di curdi sparsi per il Paese e per il resto del mondo. Appena oltrepassata la cinta muraria romana, ecco le baraccopoli e gli slums dove vivono i curdi urbanizzatisi in città in questi decenni. Una distesa disordinata di basse case e baracche di mattoni e pietre, coperte da rami e lamiere, divise da strade di fango e rifiuti. Qui ci vengono incontro i bambini. Non chiedono nulla, non reclamano nessuna mancia: hanno solo il piacere di osservare i rari visitatori di queste zone e di essere fotografati dai nostri obiettivi, mentre le loro madri, avvolte nel velo violaceo tipico di questa zona, spiano timidamente dalle finestre delle loro case. È difficile riportare il disagio che questo spettacolo ci crea: non siamo preparati alla vista di questa povertà, che appare tuttavia vissuta con dignità.
È l’impatto con la questione curda, una storia dolorosa e intricata, della cui drammaticità ci è stata data prova pochissimi giorni dopo aver lasciato Diyarbakır. Il 17 agosto infatti, un attentato del PKK nella provincia di Hakkari, all’estremo est della Turchia, uccide una decina di soldati turchi, riaprendo così la spirale di violenza terroristica e rappresaglie. La risposta del governo non si fa attendere: solo pochi giorni dopo, proprio dalle basi di Diyarbakır, gli F16 dell’esercito sono decollati per iniziare una serie di massicci bombardamenti contro le basi del PKK sulle montagne della Turchia orientale e anche nella zona del massiccio del Qandil, in Iraq settentrionale, mentre il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, riunitosi il 18 agosto, approvava nuove, drastiche misure antiterrorismo. Tra queste, i quotidiani locali riportano la ripresa delle operazioni aree, ma senza escludere azioni boots on the ground, in kurdistan iracheno, col supporto degli Usa e l’inizio di una più stretta collaborazione tra le autorità civili e militari, onde evitare di perdere il controllo sui generali turchi, con cui il governo da tempo intrattiene difficili relazioni. I quotidiani locali, ma anche la gente di strada con cui abbiamo condiviso un çay e alcune chiacchiere parlano di una vera svolta di Erdoğan sulla questione curda, passando da una linea negoziale col PKK e Öcalan, ad una linea dura di completa riconfigurazione della riposta militare. Alcuni invocano maggiore durezza e l’emarginazione del partito dei lavoratori curdi dal processo di pace, sottolineando il fallimento della politica del governo e dei partiti filo curdi moderati. In tutti comunque si nota grande amarezza e delusione per il riaccendersi dell’escalation di violenza nella questione curda.
Tornano alla memoria le frasi di Atatürk che campeggiano a caratteri cubitali sulle colline del territorio curdo, a monito agli indipendentisti del PKK che “Sehitler ölmez”, i martiri non muoiono, e “Vatan bölünmez”, la patria non si divide, accompagnati dalla sagoma pensosa del Padre.
La Turchia appare sempre più un paese attraversato da profonde spaccature, di natura etnica, nel caso delle questione curda ed armena, ma non solo. Girando per queste aree ci si rende conto di quante fratture ideologiche, politiche e religiose lo attraversano. Una di queste, forse la più vistosa o quella che si percepisce maggiormente, è l’opposizione tra la ummah, la comunità dei fedeli ed i principi politici repubblicani di nazione e patria trapiantanti e robustamente sostenuti dagli eredi del kemalismo. Il repubblicanesimo nazionale turco, la laicità dello stato, le sagome di Atatürk sulle colline e i suoi immancabili ritratti contro i minareti alti e slanciati delle moschee; le scuole pubbliche e laiche, contro le madrase dove, particolarmente d’estate, si vedono numerosi bimbi frequentare i corsi di Islam. Molti turchi, specie quelli più attaccati all’idea repubblicana, sembrano vedere con sospetto il governo in carica e ancora di più la definizione di “Islam moderato” di cui esso si fregia, definizione tanto apprezzata dagli alleati americani ed europei, che in esso pensano di trovare la chiave di volta per relazionarsi coi paesi islamici. Anche la nostra guida ci spiega che sono in molti a temere l’indebolimento progressivo della laicità dello stato e l’annacquamento dell’impronta repubblicana che Atatürk diede a questo paese. Insomma, una sorta di ritorno del pan-islamismo di Abdül Hamid II: in fin dei conti anche quel sultano aveva issato i principi coranici a scudo e corazza contro le “infettive” idee europee, individuandole correttamente come primo veicolo dei grandi cambiamenti che l’Impero stava subendo. Tra queste, forse la più pericolosa per l’impero certo era l’idea di nazione, la cui forza centrifuga avrebbe di lì a poco portato all’implosione della struttura multinazionale imperiale, sotto la spinta rivoluzionaria dei giovani turchi. Infine, terminato il Secondo conflitto mondiale e la guerra d’indipendenza, Kemal avrebbe fatto dell’affermazione del principio di nazionalità, laicità e modernizzazione le parole d’ordine della Repubblica Turca, come già anticipava nel patto nazionale di Erzurum del luglio 1919. Difficile pensare ad una cesura col passato più netta di questa e ad un rifiuto del passato imperiale.
Una domanda sorge quindi spontanea: quanto in profondità sono penetrate le idee modernizzatrici e le riforme di Atatürk nel cuore di questo stato e dei suoi abitanti? Non siamo forse, in fin dei conti, nel Paese erede del secolare Impero ottomano, che per definizione non era né laico, né nazionale, né tanto meno progressista? Quali tra queste due eredità, quella kemalista e quella ottomana, avrà maggior peso e maggiori effetti sul futuro della Turchia del XXI secolo, moderna e democratica?
Il sole è oramai al tramonto sulla spiaggia di Kemer. Alla luce degli ultimi raggi trovo forse una risposta nel bel La crisi dell’Islam di Bernard Lewis, autore che porto sempre volentieri nei miei viaggi nei paesi islamici.: “L’esperienza della Repubblica turca negli ultimi cinquant’anni e di qualche altro paese musulmano più di recente, ha dimostrato due cose: primo, è veramente difficile creare una democrazia in quel tipo di civiltà; secondo, è difficile ma non impossibile. Lo studio della storia islamica e della vasta e ricca letteratura politica islamica conforta la convinzione che sia realmente possibile far nascere istituzioni democratiche , non necessariamente nel senso che noi occidentali diamo a questo abusato termine, ma nel senso che derivi dalla loro storia e dalla loro cultura e che garantisca a modo loro un sistema di governo condizionato dalla legge, da forme di consultazione e dalla trasparenza, in una società civile ed umana. Basta quello che c’è, nella cultura tradizionale dell’Islam da una parte, e nell’esperienza moderna dei popoli musulmani dell’altra, per avere una base da cui procedere verso la libertà, nel vero senso della parola”.
Sia l’auspicio per questo grande Paese.
Fonte:Balcanicaucaso
Un viaggio nell’Anatolia orientale, ai confini con il Caucaso e l’Iran, dove la Turchia raccoglie il suo sorprendente patrimonio culturale, religioso, etnico, non senza spaccature anche dolorose come nel caso delle questioni curda ed armena. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Kemer pullula di russi. La spiaggia, la marina, i negozi di souvenir pacchiani del centro città del tutto identici a quelli di Jesolo o Lignano, i bar…Pare che i russi abbiano pacificamente raggiunto il sogno zarista dei mari caldi. Addirittura le insegne e i menù dei ristoranti, anche i più squallidi, sono in cirillico, mentre frotte di russi, accompagnati dalle loro donne biondissime ed abbrustolite fanno la ronda della città, tutti muniti di regolare braccialetto dei rispettivi hotel, a garanzia del trattamento all-inclusive. Alcolici compresi, s’intende.
Fa una certa impressione essere tornato nella cosiddetta civiltà, fatta di luci rutilanti, bar, negozi e ristoranti, mentre fino a qualche giorno fa respiravamo l’aria pura delle cime della Turchia orientale, assaggiavamo cibi curdi al confine con l’Iran, osservavamo con stupore l’Arpaçay, lungo il confine armeno, in un ambiente più prossimo al Caucaso che al Medio Oriente.
Solo dieci giorni prima siamo partiti da Trebisonda, sotto nubi basse e pioggia fine che s’infilava nel collo della giacca, in un ambiente di pini e boschi fitti, come in una vallata austriaca. Un çay bollente [tradizionale tè turco ndr] sotto lo sguardo rigido del monastero di Sumela ci ha rinfrancati, prima di riprendere la strada di montagna, avvolta in cumuli di nebbia e pioggia, in direzione di Erzurum e Kars e del confine con l’Armenia. Qui il paesaggio cambia abbastanza sensibilmente. Si fa più brullo e secco, mentre, a mano a mano che si avvicina la frontiera, la presenza di installazioni militari e check point diventa più visibile, per ricordare al viandante che si trova vicino ad un confine doloroso e combattuto. Tornano alla mente le immagini e la lunga diatriba storica sul massacro degli armeni, negli ultimi, convulsi anni tra il tramonto dell’Impero Ottomano e la nascita della Repubblica turca, ma anche la complicata questione del Nagorno Karabakh, dove i turchi appoggiano gli alleati azeri contro l’enclave armena. Per questo dal 1993 il confine turco armeno resta chiuso, nonostante i protocolli di stabilizzazione delle relazioni bilaterali, stipulati nell’ottobre 2010 a Zurigo tra Ankara e Yerevan.
Ad Ani finalmente, tra le chiese armene affrescate, le cattedrale georgiana e la moschea, ecco il confine: l’Arpaçay, le cui acque verdi e fredde scorrono in fondo al canyon che separa Turchia ed Armenia, mentre i soldati dei rispettivi paesi scrutano i vasti altopiani battuti dal vento.
Benvenuti in Caucaso
Tornati infine in città, a Kars, incontriamo le vestigia degli scomodi vicini di casa dell’Impero ottomano. Nel centro rimangono ancora numerosi palazzi bassi e tozzi costruiti dai russi, che tra il 1870 ed il 1920 avevano occupato questo distretto di confine, a lungo conteso all’Impero ottomano ed infine ceduto alla Turchia repubblicana con il trattato di Kars del 1921, assieme al distretto di Ardahan, 270 km più a nord. Come se queste zone non avessero vissuto abbastanza storia, è proprio qui che si consumò uno dei primi incidenti della guerra fredda, quando nel marzo 1946, nel tentativo di forzare una revisione degli accordi di Montreux del 1936 sul controllo del Bosforo e dei Dardanelli, i sovietici intimarono alla Turchia di restituire i distretti, costringendo così Stati Uniti e Gran Bretagna ad un duro intervento diplomatico contro di loro, prima avvisaglia di quella che doveva poi passare alla storia come la dottrina Truman. Come dare torto a Winston Churchill, quando affermava che certi posti producono più storia di quanta non riescano a digerire?
È pomeriggio quando dal confine armeno ci allontaniamo verso un altro confine. Partiamo alla volta di Dogubeyazit, a una trentina di chilometri dall’Iran. L’arrivo è difficoltoso. Mentre attraversiamo le montagne che la precedono, il motore inizia a fare le bizze, tossisce e geme e non si riescono a superare i 30 km all’ora. Il filtro della benzina è ostruito o rotto, ci spiega la guida, che tanto per tranquillizzarci, inizia a raccontarci che queste zone negli anno ’90 sono state teatro di imboscate e attentati da parte dei guerriglieri del PKK, seguiti ovviamente dalle rappresaglie dell’esercito turco.
Benvenuti in kurdistan
È ormai notte quando faticosamente entriamo a Doğubeyazıt, mentre la luna, sbucata infine da oltre le nubi, ci appaga con la vista della cima imbiancata del monte Ararat, di biblica memoria. Doğubeyazıt, città di frontiera: anche nel cuore della notte, i mercanti continuano la loro febbrile attività, i camion diretti nel vicino Iran (35 km) o in Armenia (via Azerbaijan) attraversano senza sosta il centro, mentre la città è intenta a celebrare l’iftar del Ramadan, spesso offerto gratis dalle famiglie abbienti della città.
L’indomani mattina partiamo presto alla volta del palazzo dell’emiro curdo Isak Pasha per poi proseguire in una lunga tirata fino alle rive del lago di Van, dove arriviamo oramai al tramonto.
Riparato il motore, dobbiamo tuttavia procedere lentamente. Il percorso è rallentato da infiniti tratti di lavori in corso. Da quando siamo partiti da Trebisonda, ma in particolare scendendo verso Van e Diyarbakır, si incontrano innumerevoli colline sbancate e sventrate, cave, corsi d’acqua deviati per far spazio a nuove e più ampie strade, nello sforzo di collegare il territorio abitato dai curdi con il resto del Paese, con effetti paesaggistici disastrosi (almeno per il momento). Certo le infrastrutture, parola che solitamente genera un’incontrollabile eccitazione negli ingegneri, sono utili, ma riesce difficile non pensare al contrasto con l’ambiente circostante e all’impatto di queste opere sulla società delle zone di montagna curde. Allontanandosi infatti dalle strade principali, non è difficile vedere le donne in abiti tradizionali piegate al lavoro nei campi e bimbi scalzi che saltellano sulle rocce dietro al loro branco di pecore smagrite. Lo sviluppo, ammesso che si sappia cosa intendere con questa parola, avanza a colpi di betoniera?
Il mattino successivo, visitata la chiesa armena dell’isola di Akadamar, immersa nelle sue acque alcaline, facciamo rotta verso Diyarbakır, porta della mezzaluna fertile. Si prova un certo piacere ad abbandonare Van, circondata dalle sue interminabili fabbriche di cemento per arrivare alla terra dei fiumi. Dall’impressionante cinta muraria di basalto nero che circonda Diyarbakır intravvediamo in lontananza il lento, millenario scorrere del Tigri. È l’inizio della fertile pianura mesopotamica.
A Diyarbakır davvero si possono toccare con mano il dramma del popolo curdo, che da trent’anni agita la vita della Repubblica turca, e il destino dei milioni di curdi sparsi per il Paese e per il resto del mondo. Appena oltrepassata la cinta muraria romana, ecco le baraccopoli e gli slums dove vivono i curdi urbanizzatisi in città in questi decenni. Una distesa disordinata di basse case e baracche di mattoni e pietre, coperte da rami e lamiere, divise da strade di fango e rifiuti. Qui ci vengono incontro i bambini. Non chiedono nulla, non reclamano nessuna mancia: hanno solo il piacere di osservare i rari visitatori di queste zone e di essere fotografati dai nostri obiettivi, mentre le loro madri, avvolte nel velo violaceo tipico di questa zona, spiano timidamente dalle finestre delle loro case. È difficile riportare il disagio che questo spettacolo ci crea: non siamo preparati alla vista di questa povertà, che appare tuttavia vissuta con dignità.
È l’impatto con la questione curda, una storia dolorosa e intricata, della cui drammaticità ci è stata data prova pochissimi giorni dopo aver lasciato Diyarbakır. Il 17 agosto infatti, un attentato del PKK nella provincia di Hakkari, all’estremo est della Turchia, uccide una decina di soldati turchi, riaprendo così la spirale di violenza terroristica e rappresaglie. La risposta del governo non si fa attendere: solo pochi giorni dopo, proprio dalle basi di Diyarbakır, gli F16 dell’esercito sono decollati per iniziare una serie di massicci bombardamenti contro le basi del PKK sulle montagne della Turchia orientale e anche nella zona del massiccio del Qandil, in Iraq settentrionale, mentre il Consiglio Nazionale per la Sicurezza, riunitosi il 18 agosto, approvava nuove, drastiche misure antiterrorismo. Tra queste, i quotidiani locali riportano la ripresa delle operazioni aree, ma senza escludere azioni boots on the ground, in kurdistan iracheno, col supporto degli Usa e l’inizio di una più stretta collaborazione tra le autorità civili e militari, onde evitare di perdere il controllo sui generali turchi, con cui il governo da tempo intrattiene difficili relazioni. I quotidiani locali, ma anche la gente di strada con cui abbiamo condiviso un çay e alcune chiacchiere parlano di una vera svolta di Erdoğan sulla questione curda, passando da una linea negoziale col PKK e Öcalan, ad una linea dura di completa riconfigurazione della riposta militare. Alcuni invocano maggiore durezza e l’emarginazione del partito dei lavoratori curdi dal processo di pace, sottolineando il fallimento della politica del governo e dei partiti filo curdi moderati. In tutti comunque si nota grande amarezza e delusione per il riaccendersi dell’escalation di violenza nella questione curda.
Tornano alla memoria le frasi di Atatürk che campeggiano a caratteri cubitali sulle colline del territorio curdo, a monito agli indipendentisti del PKK che “Sehitler ölmez”, i martiri non muoiono, e “Vatan bölünmez”, la patria non si divide, accompagnati dalla sagoma pensosa del Padre.
La Turchia appare sempre più un paese attraversato da profonde spaccature, di natura etnica, nel caso delle questione curda ed armena, ma non solo. Girando per queste aree ci si rende conto di quante fratture ideologiche, politiche e religiose lo attraversano. Una di queste, forse la più vistosa o quella che si percepisce maggiormente, è l’opposizione tra la ummah, la comunità dei fedeli ed i principi politici repubblicani di nazione e patria trapiantanti e robustamente sostenuti dagli eredi del kemalismo. Il repubblicanesimo nazionale turco, la laicità dello stato, le sagome di Atatürk sulle colline e i suoi immancabili ritratti contro i minareti alti e slanciati delle moschee; le scuole pubbliche e laiche, contro le madrase dove, particolarmente d’estate, si vedono numerosi bimbi frequentare i corsi di Islam. Molti turchi, specie quelli più attaccati all’idea repubblicana, sembrano vedere con sospetto il governo in carica e ancora di più la definizione di “Islam moderato” di cui esso si fregia, definizione tanto apprezzata dagli alleati americani ed europei, che in esso pensano di trovare la chiave di volta per relazionarsi coi paesi islamici. Anche la nostra guida ci spiega che sono in molti a temere l’indebolimento progressivo della laicità dello stato e l’annacquamento dell’impronta repubblicana che Atatürk diede a questo paese. Insomma, una sorta di ritorno del pan-islamismo di Abdül Hamid II: in fin dei conti anche quel sultano aveva issato i principi coranici a scudo e corazza contro le “infettive” idee europee, individuandole correttamente come primo veicolo dei grandi cambiamenti che l’Impero stava subendo. Tra queste, forse la più pericolosa per l’impero certo era l’idea di nazione, la cui forza centrifuga avrebbe di lì a poco portato all’implosione della struttura multinazionale imperiale, sotto la spinta rivoluzionaria dei giovani turchi. Infine, terminato il Secondo conflitto mondiale e la guerra d’indipendenza, Kemal avrebbe fatto dell’affermazione del principio di nazionalità, laicità e modernizzazione le parole d’ordine della Repubblica Turca, come già anticipava nel patto nazionale di Erzurum del luglio 1919. Difficile pensare ad una cesura col passato più netta di questa e ad un rifiuto del passato imperiale.
Una domanda sorge quindi spontanea: quanto in profondità sono penetrate le idee modernizzatrici e le riforme di Atatürk nel cuore di questo stato e dei suoi abitanti? Non siamo forse, in fin dei conti, nel Paese erede del secolare Impero ottomano, che per definizione non era né laico, né nazionale, né tanto meno progressista? Quali tra queste due eredità, quella kemalista e quella ottomana, avrà maggior peso e maggiori effetti sul futuro della Turchia del XXI secolo, moderna e democratica?
Il sole è oramai al tramonto sulla spiaggia di Kemer. Alla luce degli ultimi raggi trovo forse una risposta nel bel La crisi dell’Islam di Bernard Lewis, autore che porto sempre volentieri nei miei viaggi nei paesi islamici.: “L’esperienza della Repubblica turca negli ultimi cinquant’anni e di qualche altro paese musulmano più di recente, ha dimostrato due cose: primo, è veramente difficile creare una democrazia in quel tipo di civiltà; secondo, è difficile ma non impossibile. Lo studio della storia islamica e della vasta e ricca letteratura politica islamica conforta la convinzione che sia realmente possibile far nascere istituzioni democratiche , non necessariamente nel senso che noi occidentali diamo a questo abusato termine, ma nel senso che derivi dalla loro storia e dalla loro cultura e che garantisca a modo loro un sistema di governo condizionato dalla legge, da forme di consultazione e dalla trasparenza, in una società civile ed umana. Basta quello che c’è, nella cultura tradizionale dell’Islam da una parte, e nell’esperienza moderna dei popoli musulmani dell’altra, per avere una base da cui procedere verso la libertà, nel vero senso della parola”.
Sia l’auspicio per questo grande Paese.
Fonte:Balcanicaucaso
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