Aggiornato il 03/05/18 at 04:35 pm
di Piergiorgio Cattani-Unimondo
Il 12 giugno prossimo in Turchia si svolgeranno le elezioni politiche che dovrebbero confermare l’egemonia dell’Akp, il partito islamico moderato del primo ministro Erdogan, al potere dal 2002. Il Partito della giustizia e dello sviluppo, appunto l’Akp, dovrebbe attestarsi intorno al 50% dei voti che, secondo la legge elettorale turca basata su una soglia di sbarramento del 10%, potrebbe tradursi nella maggioranza assoluta dei seggi, una soglia che garantirebbe al partito di poter cambiare autonomamente la Costituzione uscita dal golpe militare del 1980.
L’anno scorso, dopo un periodo di sorda contrapposizione istituzionale tra governo e esercito/sistema giudiziario con vari timori di colpo di stato, vennero approvati da un referendum alcuni emendamenti costituzionali, fortemente voluti da Erdogan e sostenuti da Stati Uniti e Europa, volti a ridimensionare il ruolo dei militari e a inserire alcune libertà individuali (è stato abolito il divieto di indossare il velo in luoghi pubblici) e alcuni diritti per le minoranze.
Ma il partito di maggioranza vuole avere i numeri per attuare ulteriori e sostanziali modifiche. Sembra essere questa la vera posta in palio di questa tornata elettorale che vede i partiti di opposizione in grande affanno: il Partito Repubblicano del popolo (Chp, laico e di “sinistra”, rappresenta l’ortodossia kemalista, che ha ottenuto circa il 20% alle scorse elezioni) e il Partito di azione nazionalista (Mhp, ultra destra, apertamente anti curdo e anti greco che gode di circa il 15% dei consensi) dovrebbero essere le uniche forze politiche a entrare in Parlamento. Resta il Partito della pace e della democrazia, il nuovo partito dei curdi dopo la messa al bando di quello precedente, reo di contiguità con il gruppo “terroristico” del Pkk. In queste elezioni i curdi non presenteranno il partito (che non supererebbe certamente la soglia) ma avranno nelle altre liste alcuni candidati indipendenti.
Intorno a questi candidati, nelle ultime settimane si è combattuta una battaglia il cui esito è significativo per capire in che direzione va la Turchia. Il 18 aprile l’Alto Consiglio elettorale, un organismo emanazione della Corte Costituzionale, dichiarava illegittime le candidature degli esponenti curdi più in vista. Va ricordato che il sistema giudiziario e il potere militare turchi sono molto lontani dagli standard democratici occidentali e spesso svolgono una funzione di contropotere, creando una continua tensione con le istituzioni di governo. Ebbene dopo questa decisione della Corte, per la prima volta tutti i partiti unanimi hanno protestato vivamente spingendo l’Alto Consiglio a rimangiarsi in meno di una settimana il suo decreto, reintegrando così i curdi. Un segnale incoraggiante perché evidenzia quanto le dinamiche democratiche stiano prendendo piede nella politica turca superando anche storici pregiudizi com’è il caso dei rapporti con i curdi. La situazione in Kurdistan sembra lontanissima da una piena pacificazione ma la presenza dei candidati a queste elezioni è l’unica strada per progredire nel dialogo tra le parti.
Un’altra spina sono i rapporti con Cipro. Ancora per la prima volta turco-ciprioti (abitanti della parte nord dell’isola controllata dall’esercito turco) hanno protestato a Ankara contro il governo: si trattava di una manifestazione contro i tagli ai finanziamenti all’isola ma in controluce si coglieva la stanchezza per l’incapacità di risolvere il problema della riunificazione. Erdogan, in campagna elettorale, ha invece rispolverato subito il nazionalismo turco.
Su alcuni aspetti di politica estera cruciali per il futuro della Turchia, l’opinione pubblica sembra divisa a metà. In un sondaggio del dicembre scorso (prima cioè della rivolta araba) commissionato dall’Associated press il 50% dei turchi si dichiara favorevole all’adesione all’Unione Europea e il 52% alla permanenza nella Nato, mentre percentuali simili chiedono l’interruzione dei rapporti diplomatici con Israele (55%) e un allentamento dei legami con gli USA (53%). L’85% dichiara che il fattore religioso è importante per la propria vita, anche se l’effettiva pratica è diminuita, ma il 65% è contrario alla presenza di religiosi in politica, e addirittura il 69% (rispetto al 45% del 2002) ritiene che l’Islam debba avere un ruolo marginale nelle scelte politiche.
Questi dati rispecchiano la nuova agenda della Turchia di Erdogan soprattutto in politica estera. Da circa due anni abbiamo assistito a un riposizionamento turco nello scacchiere medio-orientale: una svolta che qualcuno ha definito neo-ottomana e che prevede innanzitutto l’ostilità verso Israele e poi il recupero dell’antica egemonia sul mondo arabo/islamico. D’altra parte ciò non sembra significare, come vorrebbero alcuni osservatori preoccupati dal retroterra islamico di Erdogan, rifiuto dell’Europa e della democrazia liberale ma recupero in chiave moderna della secolare tradizione ottomana, violentemente sradicata da Ataturk. . Le interpretazioni più positive vedono ancora nella nuova Turchia una possibile “cerniera” tra Europa e Medioriente e nelle riforme anti laiche, ma sicuramente democratiche, della Costituzione un approccio più consono alla struttura sociale del paese, aprendo la strada a un possibile islamismo democratico da esportazione, specie per quei stati in rivolta che non trovano modelli a cui ispirare la transizione in atto.
Forte a livello economico e demografico, con un esercito moderno e armato, portatrice di una visione strategica di lungo periodo, sostenuta da una società dinamica, la Turchia si presenta come un attore decisivo del XXI secolo. Le contraddizioni non mancano ma una rotta positiva sembra segnata. La nuova Turchia potrebbe farcela da sola, ma l’Europa perderebbe un’occasione storica.
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