Aggiornato il 03/05/18 at 04:36 pm
di Riccardo Redaelli
Per molti la guerra è già cominciata. Una ‘guerra ombra’, come ha scritto recentemente Newsweek, che punta a colpire l’Iran nei gangli vitali del suo programma nucleare, tramite l’eliminazione fisica dei suoi scienziati, l’attacco informatico ai siti per l’arricchimento dell’uranio – come quello che ha bloccato le centrifughe di Natanz lo scorso novembre –, il sostegno ai gruppi autonomisti o anti-regime presenti nel Paese. Una serie di iniziative segrete che devono colpire Teheran ‘sotto la cintola’, convincendola a rinunciare ai propri programmi atomici e che affiancano le politiche ufficiali dell’Occidente, le quali combinano il bastone delle sanzioni economiche con la carota dell’offerta di dialogo politico e di riconoscimento. Altri disegnano uno scenario ancor più complesso, che unisce attacchi esterni e regolamenti di conti interni. Secondo alcune voci iraniane, infatti, gli attentati sarebbero addirittura stati organizzati dagli stessi servizi segreti iraniani, che dubitavano della lealtà di quegli scienziati.
Gli «attentati» a Teheran
Per certo, questi clamorosi attentati di fine novembre – con motociclisti che hanno lanciato bombe magnetiche contro le auto dei fisici – hanno provocato la risposta del governo, che ha denunciato, per voce dello stesso presidente Ahmadinejad, un «complotto sionista» teso a bloccare il diritto dell’Iran alla tecnologia nucleare. Il che, in verità, non vuol dir molto, dato che la Repubblica islamica dell’Iran si nutre dell’ossessione di complotti. Sionisti e non. Ad esempio, è diffusa negli ambienti conservatori – non bastava Dan Brown – l’idea che il Vaticano ordini l’assassinio di ogni personaggio europeo di rango che voglia convertirsi all’islam (citatissimo il presunto caso di Edoardo Agnelli). All’accusa di Ahmadinejad non è seguita, come da copione, alcuna risposta da parte del governo israeliano, il quale predilige l’opacità di non smentire e non confermare. Ma per andare al di là dei titoli immaginifici, bisogna cercare di ricostruire il complesso puzzle in questa contesa sul nucleare, visto lo stallo dei negoziati, iniziati nel 2003.
Le sanzioni economiche
Colpire l’economia è l’arma tradizionale di pressione della comunità internazionale per ‘convincere’ un Paese a modificare la propria politica. Un’arma che in molti considerano spuntata, soprattutto quando usata contro un Paese come la Republica islamica dell’Iran che – dalla sua fondazione nel 1979 – ha sempre convissuto con embarghi e sanzioni. Di sicuro, le misure economiche e l’isolamento politico non bastano da soli e devono far parte di una strategia più completa. Da quanto si capisce, le ultime – e più dure – sanzioni decise dalle Nazioni Unite stanno indebolendo l’economia iraniana. Obama aveva affermato di voler «colpire il regime e non il popolo iraniano». Come avviene quasi sempre, però, il risultato è opposto. Chi paga i prezzi maggiori sono i cittadini comuni e il ceto imprenditoriale e mercantile vicino ai conservatori tradizionali o ai riformisti. Paradossalmente, le sanzioni favoriscono proprio gli ultra-radicali e i pasdaran, che si stanno impadronendo sempre più dei gangli vitali dell’economia iraniana. Così diventeranno sempre più forti e arroganti.
Un Paese «senza alleati»
Quanto all’isolamento politico, oltre alla riduzione degli scambi politici, economici e culturali con l’Europa, Teheran deve affrontare l’ostilità totale dei Paesi arabi sunniti. Come rivelato anche da Wikileaks – ma negli ambienti diplomatici la notizia circolava già da tempo –, le monarchie arabe del Golfo appoggerebbero ufficiosamente azioni contro l’Iran. Il regime è però convinto che l’ostilità sunnita e occidentale possa essere ribilanciata dai sempre più stretti legami con Cina, Russia, Turchia, Brasile e altre potenze non occidentali.
Fomentare il disordine
Nei primi anni delle presidenze Bush, a Washington ci si è baloccati a lungo con l’idea di sfruttare le diversità etniche e religiose presenti in Iran, sostenendo movimenti autonomisti o anti-centralisti fra cui gli azeri del nordovest, gli arabi sunniti del sud e i baluci (pure sunniti) del Sistan-Baluchistan. E anche gruppi politici d’opposizione radicale, come gli estremisti dei Mujaheddin-e Khalq. Un’idea che rifletteva la scarsa comprensione del senso identitario del Paese, in definitiva velleitaria e pericolosa, perché portava a volte a sostenere gruppi radicali ed estremamente violenti. Per di più, fomentare i particolarismi significa aprire un vaso di Pandora in tutta la regione, mettendo in difficoltà anche Paesi alleati, a rischio di turbolenze simili. In questi anni, si è anche cercato di rafforzare la capacità di movimento e di azione degli agenti nel territorio iraniano: l’intelligence statunitense presente in Iran era infatti considerata del tutto inadeguata. Ad esempio, il Kurdistan iracheno è considerato una delle basi avanzate migliori per gli 007 sia americani sia, soprattutto, israeliani. È di qui che gli uomini delle forze speciali con la stella di Davide potrebbero muoversi, anche se la recente crisi intervenuta nei rapporti fra Israele e Turchia – altro Stato molto attivo nel Kurdistan – può indebolire l’azione mirata d’intelligence condotta da Gerusalemme.
L’opzione militare
È la carta che non vorrebbe giocare nessuno: l’Occidente è stanco di guerre, in crisi economica, con troppi soldati all’estero in missioni di cui non si vede la fine. Soprattutto, non la vogliono i militari: sanno che un attacco aereo e missilistico contro i siti del programma nucleare iraniano difficilmente fermerebbe Teheran, ed esporrebbe il Medio Oriente a una reazione asimmetrica che rischia di far precipitare tutta la regione nel caos. Molti analisti sono convinti che sia tutto sommato meglio convivere con una ‘bomba potenziale’ iraniana piuttosto che cercare di fermarla militarmente. Si spera che il regime sia abbastanza scaltro da ottenere la capacità teorica e fermarsi a quel punto, senza costruire o testare nessun ordigno. Una posizione che però non rassicura né Israele né le monarchie arabe del Golfo. Si racconta che i sauditi siano arrivati al punto di offrire di spegnere i propri radar per favorire il passaggio dei caccia con la stella di Davide. Ovviamente, per poi accusare Tel Aviv di aver ‘spento’ informaticamente le proprie difese. Di sicuro, la possibile bomba iraniana spaventa gli arabi molto più di quella israeliana.
Convivere con la bomba
L’incognita vera è quanto Israele possa convivere con la prospettiva di un Iran nucleare: è da anni che i politici dello Stato ebraico indicano ‘linee rosse’ invalicabili oltre le quali scatterebbe l’attacco. Più volte questi limiti sono stati spostati in avanti: effetto delle pressioni di Washington, ma anche segno delle titubanze dinanzi a una mossa estrema che innescherebbe reazioni violentissime: destabilizzazione in Iraq e Afghanistan, lanci di missili da parte di Hezbollah, le opinioni pubbliche arabe inferocite che metterebbero a dura prova la stabilità dei governi moderati, le ritorsioni iraniane che potrebbero spingersi al punto di bombardare i Paesi arabi del Golfo con basi americane. Secondo voci ufficiose dell’intelligence israeliana, l’attacco informatico con il virus Stuxnet (confermato anche dal New York Times, che domenica ha parlato di una collaborazione americana) contro le centrifughe nucleari iraniane avrebbe ritardato di anni la bomba: ma anche in questo caso non è chiaro quanto vi sia di vero o se queste rivelazioni servano a rassicurare l’opinione pubblica. Insomma, come si dice ormai da anni, sembriamo essere di fronte a una opzione egualmente catastrofica: «Un Iran con la bomba o un Iran bombardato ». Finché vi è una possibilità, allora, meglio continuare sulla strada del negoziato e cercare, con testardaggine, un accordo finora sfuggito. La centrale nucleare di Bushehr, in un’immagine di qualche anno fa (Ap) Un operaio al lavoro nell’impianto di Arak (Reuters)
Fonte:Avvenire
Per molti la guerra è già cominciata. Una ‘guerra ombra’, come ha scritto recentemente Newsweek, che punta a colpire l’Iran nei gangli vitali del suo programma nucleare, tramite l’eliminazione fisica dei suoi scienziati, l’attacco informatico ai siti per l’arricchimento dell’uranio – come quello che ha bloccato le centrifughe di Natanz lo scorso novembre –, il sostegno ai gruppi autonomisti o anti-regime presenti nel Paese. Una serie di iniziative segrete che devono colpire Teheran ‘sotto la cintola’, convincendola a rinunciare ai propri programmi atomici e che affiancano le politiche ufficiali dell’Occidente, le quali combinano il bastone delle sanzioni economiche con la carota dell’offerta di dialogo politico e di riconoscimento. Altri disegnano uno scenario ancor più complesso, che unisce attacchi esterni e regolamenti di conti interni. Secondo alcune voci iraniane, infatti, gli attentati sarebbero addirittura stati organizzati dagli stessi servizi segreti iraniani, che dubitavano della lealtà di quegli scienziati.
Gli «attentati» a Teheran
Per certo, questi clamorosi attentati di fine novembre – con motociclisti che hanno lanciato bombe magnetiche contro le auto dei fisici – hanno provocato la risposta del governo, che ha denunciato, per voce dello stesso presidente Ahmadinejad, un «complotto sionista» teso a bloccare il diritto dell’Iran alla tecnologia nucleare. Il che, in verità, non vuol dir molto, dato che la Repubblica islamica dell’Iran si nutre dell’ossessione di complotti. Sionisti e non. Ad esempio, è diffusa negli ambienti conservatori – non bastava Dan Brown – l’idea che il Vaticano ordini l’assassinio di ogni personaggio europeo di rango che voglia convertirsi all’islam (citatissimo il presunto caso di Edoardo Agnelli). All’accusa di Ahmadinejad non è seguita, come da copione, alcuna risposta da parte del governo israeliano, il quale predilige l’opacità di non smentire e non confermare. Ma per andare al di là dei titoli immaginifici, bisogna cercare di ricostruire il complesso puzzle in questa contesa sul nucleare, visto lo stallo dei negoziati, iniziati nel 2003.
Le sanzioni economiche
Colpire l’economia è l’arma tradizionale di pressione della comunità internazionale per ‘convincere’ un Paese a modificare la propria politica. Un’arma che in molti considerano spuntata, soprattutto quando usata contro un Paese come la Republica islamica dell’Iran che – dalla sua fondazione nel 1979 – ha sempre convissuto con embarghi e sanzioni. Di sicuro, le misure economiche e l’isolamento politico non bastano da soli e devono far parte di una strategia più completa. Da quanto si capisce, le ultime – e più dure – sanzioni decise dalle Nazioni Unite stanno indebolendo l’economia iraniana. Obama aveva affermato di voler «colpire il regime e non il popolo iraniano». Come avviene quasi sempre, però, il risultato è opposto. Chi paga i prezzi maggiori sono i cittadini comuni e il ceto imprenditoriale e mercantile vicino ai conservatori tradizionali o ai riformisti. Paradossalmente, le sanzioni favoriscono proprio gli ultra-radicali e i pasdaran, che si stanno impadronendo sempre più dei gangli vitali dell’economia iraniana. Così diventeranno sempre più forti e arroganti.
Un Paese «senza alleati»
Quanto all’isolamento politico, oltre alla riduzione degli scambi politici, economici e culturali con l’Europa, Teheran deve affrontare l’ostilità totale dei Paesi arabi sunniti. Come rivelato anche da Wikileaks – ma negli ambienti diplomatici la notizia circolava già da tempo –, le monarchie arabe del Golfo appoggerebbero ufficiosamente azioni contro l’Iran. Il regime è però convinto che l’ostilità sunnita e occidentale possa essere ribilanciata dai sempre più stretti legami con Cina, Russia, Turchia, Brasile e altre potenze non occidentali.
Fomentare il disordine
Nei primi anni delle presidenze Bush, a Washington ci si è baloccati a lungo con l’idea di sfruttare le diversità etniche e religiose presenti in Iran, sostenendo movimenti autonomisti o anti-centralisti fra cui gli azeri del nordovest, gli arabi sunniti del sud e i baluci (pure sunniti) del Sistan-Baluchistan. E anche gruppi politici d’opposizione radicale, come gli estremisti dei Mujaheddin-e Khalq. Un’idea che rifletteva la scarsa comprensione del senso identitario del Paese, in definitiva velleitaria e pericolosa, perché portava a volte a sostenere gruppi radicali ed estremamente violenti. Per di più, fomentare i particolarismi significa aprire un vaso di Pandora in tutta la regione, mettendo in difficoltà anche Paesi alleati, a rischio di turbolenze simili. In questi anni, si è anche cercato di rafforzare la capacità di movimento e di azione degli agenti nel territorio iraniano: l’intelligence statunitense presente in Iran era infatti considerata del tutto inadeguata. Ad esempio, il Kurdistan iracheno è considerato una delle basi avanzate migliori per gli 007 sia americani sia, soprattutto, israeliani. È di qui che gli uomini delle forze speciali con la stella di Davide potrebbero muoversi, anche se la recente crisi intervenuta nei rapporti fra Israele e Turchia – altro Stato molto attivo nel Kurdistan – può indebolire l’azione mirata d’intelligence condotta da Gerusalemme.
L’opzione militare
È la carta che non vorrebbe giocare nessuno: l’Occidente è stanco di guerre, in crisi economica, con troppi soldati all’estero in missioni di cui non si vede la fine. Soprattutto, non la vogliono i militari: sanno che un attacco aereo e missilistico contro i siti del programma nucleare iraniano difficilmente fermerebbe Teheran, ed esporrebbe il Medio Oriente a una reazione asimmetrica che rischia di far precipitare tutta la regione nel caos. Molti analisti sono convinti che sia tutto sommato meglio convivere con una ‘bomba potenziale’ iraniana piuttosto che cercare di fermarla militarmente. Si spera che il regime sia abbastanza scaltro da ottenere la capacità teorica e fermarsi a quel punto, senza costruire o testare nessun ordigno. Una posizione che però non rassicura né Israele né le monarchie arabe del Golfo. Si racconta che i sauditi siano arrivati al punto di offrire di spegnere i propri radar per favorire il passaggio dei caccia con la stella di Davide. Ovviamente, per poi accusare Tel Aviv di aver ‘spento’ informaticamente le proprie difese. Di sicuro, la possibile bomba iraniana spaventa gli arabi molto più di quella israeliana.
Convivere con la bomba
L’incognita vera è quanto Israele possa convivere con la prospettiva di un Iran nucleare: è da anni che i politici dello Stato ebraico indicano ‘linee rosse’ invalicabili oltre le quali scatterebbe l’attacco. Più volte questi limiti sono stati spostati in avanti: effetto delle pressioni di Washington, ma anche segno delle titubanze dinanzi a una mossa estrema che innescherebbe reazioni violentissime: destabilizzazione in Iraq e Afghanistan, lanci di missili da parte di Hezbollah, le opinioni pubbliche arabe inferocite che metterebbero a dura prova la stabilità dei governi moderati, le ritorsioni iraniane che potrebbero spingersi al punto di bombardare i Paesi arabi del Golfo con basi americane. Secondo voci ufficiose dell’intelligence israeliana, l’attacco informatico con il virus Stuxnet (confermato anche dal New York Times, che domenica ha parlato di una collaborazione americana) contro le centrifughe nucleari iraniane avrebbe ritardato di anni la bomba: ma anche in questo caso non è chiaro quanto vi sia di vero o se queste rivelazioni servano a rassicurare l’opinione pubblica. Insomma, come si dice ormai da anni, sembriamo essere di fronte a una opzione egualmente catastrofica: «Un Iran con la bomba o un Iran bombardato ». Finché vi è una possibilità, allora, meglio continuare sulla strada del negoziato e cercare, con testardaggine, un accordo finora sfuggito. La centrale nucleare di Bushehr, in un’immagine di qualche anno fa (Ap) Un operaio al lavoro nell’impianto di Arak (Reuters)
Fonte:Avvenire
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