Fariborz Kamkari costruisce il suo melodramma bellico usando un ritmo spedito, avvincente, piacevole, ma fin troppo ‘facile’.

Aggiornato il 03/05/18 at 04:36 pm


di Valentina D’Amico
Chiariamo subito un punto. Il drammatico I fiori di Kirkuk, coproduzione italo-svizzero-irachena diretta dal giovane Fariborz Kamkari, ha un grandissimo pregio: è un film coraggioso perché sceglie di affrontare un argomento tabù, quello del genocidio curdo perpetrato dall’Iraq di Saddam Hussein. L’omertà imposta dai paesi che hanno inglobato il Kurdistan, in primis Iraq e Turchia, per anni ha impedito che i dettagli della persecuzioni divenissero di pubblico dominio, men che meno che venissero realizzate opere d’arte dedicate alla tragedia. Kamkari ha infranto la regola del silenzio realizzando una pellicola di denuncia che fotografa gli orrori del regime iracheno e la sistematica pulizia etnica operata negli anni ’80 e ’90 ai danni dei Curdi. Nel far ciò sceglie la via più facile ponendo al centro della vicenda un’impossibile storia d’amore shakespeariana e creando un personaggio coraggioso e accattivante in cui il pubblico si possa identificare. La bella attrice franco-marocchina Morjana Alaoui è chiamata a interpretare la dottoressa irachena con le fattezze di una modella e la pervicacia di Mata Hari che sceglie di sposare la causa curda per amore, tradendo la propria famiglia e il proprio governo. A contendersi il cuore di Najla saranno l’affascinante collega curdo Sherko e il giovane ufficiale iracheno Mokhtar, il cui sentimento non è, però, corrisposto.
Fariborz Kamkari costruisce il suo melodramma bellico usando un ritmo spedito, avvincente, piacevole, ma fin troppo ‘facile’. Gli snodi narrativi sono spesso meccanici, l’analisi del contesto politico risulta superficiale, la rappresentazione dell’esercito iracheno e della permanenza di Najla in esso poco realistica. Una volta accettato il lavoro propostole dal ministero, Najla tenta coraggiosamente di salvare la vita alle prigioniere curde che si trova a dover curare, ruba e falsifica documenti, organizza sortite in stile ‘La grande fuga’ e seduce funzionari per proteggere colui che ama, il tutto con una facilità che lascia trasparire mancanza di rigore nella sceneggiatura. Temi chiave come l’uso delle armi chimiche nei villaggi e le torture perpetrate da esercito e polizia vengono appena accennati, buttati lì a contestualizzare le gesta di Najla e del suo amato senza godere di alcun reale approfondimento.
Dietro il nobile scopo di Kamkari di voler aprire gli occhi agli spettatori su una tragedia troppo a lungo taciuta, il vero intento della pellicola sembra essere quello di intrattenere il pubblico mescolando realtà e finzione, tragedia e sentimento. Così alle atrocità degli iracheni e al crudele destino che separa i due innamorati si contrappongono gli inserti poetici contenuti nel diario di Najla, inserti visualizzati in un paio di scene sbilanciate in un eccesso romantico (i fiori che sbocciano nella notte irachena). Per riequilibrare il sentimentalismo, la parte iniziale e conclusiva della pellicola vengono composte utilizzando materiale di repertorio (la caduta di Saddam) e ricostruzioni fittizie dei documenti dell’epoca girate appositamente (la fucilazione dei prigionieri). Un tocco documentaristico che sortisce solo in parte l’effetto voluto.
Fonte:Movieplayer.it

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