Aggiornato il 03/05/18 at 04:38 pm
di Marco D’Alonzo
Tra le molteplici minoranze etniche che popolano la Siria, spicca su tutte quella dei curdi, residente da secoli nel nord del Paese, a ridosso del confine con la Turchia…….
Nel 2012, quando l’insurrezione sunnita anti-Assad si è trasformata in una guerra civile su vasta scala, per le forze governative si è rivelato pressoché impossibile mantenere un controllo efficace su tutto il territorio e, pertanto, esponenti di queste ultime hanno concluso un accordo informale con i leader della comunità curda. In base ad esso, il regime ha ritirato tutte le sue truppe dal Kurdistan siriano, mantenendo guarnigioni esclusivamente in luoghi chiave quali i principali aeroporti e snodi ferroviari, in cambio della neutralità delle milizie locali nel conflitto e della totale autogestione politica e militare del territorio. Tale intesa, nonostante sporadici conflitti a fuoco tra le due fazioni, ha sostanzialmente retto e continua a vigere anche adesso, quasi quattro anni dopo. Tuttavia, la regione del Kurdistan siriano, autoproclamatasi autonoma nel novembre del 2013 con il nome di Rojava e popolata, oltre che dai curdi, anche da arabi sunniti e cristiani, si è ben presto ritrovata a fronteggiare nemici diversi e ben più pericolosi rispetto ai soldati governativi, vale a dire le numerose compagini islamiste della ribellione, su tutte il qaedista Fronte Al-Nusra, che si sono adoperate fin da subito per conquistarla. Le milizie locali, denominate Unità di protezione del popolo (YPG), sono riuscite non solo a mantenere integro il territorio del Rojava, ma anche a strappare agli islamisti diverse enclave curde cadute sotto il loro controllo nelle prime fasi della guerra.
Nel frattempo, l’evoluzione autonomistica della regione ha avuto il suo culmine nel gennaio del 2014 con la promulgazione della Costituzione del Rojava, ispirata a principi quali il rispetto delle minoranze, la laicità, la democrazia diretta e il confederalismo democratico, nonché dichiaratamente intenzionata a rispettare l’integrità territoriale della Siria a prescindere dall’esito della guerra civile; previsione, quest’ultima, improntata su un asciutto pragmatismo politico, poiché consiste de facto in un “mettere le mani avanti” in caso di vittoria del presidente Assad e di riconferma, pertanto, del precedente establishment. La situazione, però, è violentemente mutata in seguito all’ascesa nella regione dello Stato Islamico di Abu Bakr Al-Baghdadi, le cui forze armate, guidate dall’abile comandante ceceno Abu Omar Al-Shishani, hanno lanciato nel marzo del 2014 una potente offensiva volta ad annettere completamente il Kurdistan siriano, così da ottenere il controllo totale del confino turco-siriano, principale fonte di approvvigionamento di reclute e di armamenti per il Califfato. Seppur forti di quasi cinquantamila uomini ultramotivati, le YPG e il loro equivalente femminile, le YPJ, sono state ripetutamente sconfitte per mesi in tutto il Rojava e costrette a cedere progressivamente terreno, per poi asserragliarsi nella città di Kobane, situata a pochi metri dal confine con la Turchia, militarizzato dal presidente Erdogan per impedire ai curdi turchi di accorrere in soccorso dei loro fratelli siriani. Soltanto il decisivo intervento aereo della coalizione a guida americana, di diverse centinaia di combattenti arabi laici ed assiri dell’Esercito Siriano Libero e di alcune unità speciali dei peshmerga curdi iracheni ha permesso ai difensori di controbilanciare lo squilibrio di uomini e di mezzi pendente a favore dell’Isis, che aveva schierato nel settore anche alcuni dei carri armati Abrams di fabbricazione americana sottratti all’Iraq in seguito alla caduta di Mosul, e di vincere, nel marzo del 2015, una battaglia paragonabile, per importanza e per conformazione del terreno, a quella di Stalingrado.
Da allora, le forze curde, arabe moderate e cristiane, poi riunificate, grazie ai buoni uffici di Washington, nelle Forze Democratiche Siriane (FDS), hanno iniziato la riconquista del Rojava, affiancate anche da elementi della Delta Force statunitense. Attualmente, dopo aver conseguito integralmente tale scopo, in seguito anche ad importanti successi come le battaglie di Sarrin e di Tel Abyad, si stanno spingendo sempre più a sud, in regioni a maggioranza araba, con l’obiettivo primario di isolare e di minacciare poi direttamente Raqqa, la capitale dello Stato Islamico. Le FDS contano, secondo varie stime, tra i quarantamila e i sessantamila uomini, equipaggiati prevalentemente con armi leggere di fabbricazione sovietica, perlopiù risalenti agli anni ’70, ma sono totalmente sprovviste, a differenza del nemico, di mezzi corazzati. Tale squilibrio, però, viene ampiamente compensato sul campo dalla schiacciante supremazia aerea della coalizione occidentale, la quale ha permesso, poche settimane fa, la decisiva conquista della diga di Tishrin.
Completamente diversa è, invece, la storia della minoranza curda irachena, perseguitata per decenni dal regime di Saddam Hussein, salvo poi assurgere ad un ruolo di primo piano nel nuovo Iraq post-bellico del 2003, improntato su un assetto federale. Al Kurdistan iracheno, situato nel nord-est del Paese ed avente Erbil come capitale, è stato riconosciuto lo status di “regione autonoma”, de facto subordinata quasi solo nominalmente al governo centrale di Baghdad. Il suo territorio è ricchissimo di petrolio ed è governato dalla potente famiglia dei Barzani, legata da vincoli affaristici, tra gli altri, anche al presidente turco Erdogan. In seguito all’invasione dell’Iraq da parte dell’Isis nel 2014 ed alla contestuale caduta di molte città tra cui Mosul, Tikrit e Falluja, le locali milizie, chiamate in lingua locale peshmerga, letteralmente “coloro che fronteggiano la morte”, si sono ritrovate costrette a difendere da sole il proprio territorio, vista la drammatica incapacità bellica dimostrata dalle forze regolari governative. A differenza di queste ultime, i peshmerga hanno dimostrato non solo di essere straordinariamente motivati, ma anche di saper perfettamente mettere a frutto il decennio di addestramento impartito loro dalle forze di occupazione statunitensi, come ha messo in luce la cocente lezione impartita ai miliziani del Califfato sulla strada per Erbil, che gli uomini di Al-Baghdadi ritenevano di poter conquistare senza colpo ferire come Mosul. Nei mesi successivi, ogni tentativo di avanzata del Daesh è stato frustrato con la forza; addirittura, nel giugno del 2014, in seguito alla fuga, l’ennesima, dell’esercito dalla città di Kirkuk, fondamentale per il controllo dell’estrazione petrolifera nella regione, le forze curde ne hanno assunto unilateralmente il controllo, prevenendo così la sua conquista da parte degli invasori. Stimati in quasi duecentomila unità, perfettamente equipaggiati con armamenti di fabbricazione sia sovietica che occidentale, forniti anche dall’Italia, che ha schierato ad Erbil una task force adibita al loro addestramento, nonché dotati di oltre quattrocentocinquanta carri armati T-72, T-62 e T-55, i peshmerga possono essere ragionevolmente considerati la più letale macchina da guerra presente nel teatro siro-iracheno. I loro ultimi successi sono stati la riconquista di Sinjar, città posta sulla principale linea di collegamento tra Raqqa e Mosul, ottenuta in cooperazione con gli YPG siriani e con combattenti yazidi e curdo-turchi del PKK nel novembre del 2015, e la brillante difesa, messa in atto il mese successivo, delle pianure del governatorato di Ninive da un attacco a sorpresa dello Stato Islamico. Attualmente, due loro brigate, per un totale di circa dieci o quindicimila uomini, si stanno addestrando per la programmata offensiva congiunta diretta alla riconquista di Mosul, alla quale parteciperanno insieme all’esercito regolare e alle altre milizie attive in Iraq.
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