Turchia, bombe su curdi in Iraq. Ankara teme Kurdistan autonomo

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Aggiornato il 03/05/18 at 04:38 pm

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di Roberta Gisotti
Ci sono episodi che passano quasi inosservati nel tormentato scenario mediorientale. Tra sabato e domenica scorsi, l’esercito turco ha bombardato un……

villaggio curdo, Sharanish, al confine con l’Iraq, nella regione del Kurdistan, abitato anche da cristiani caldei e assiri. Da qui la ferma condanna del Patriarcato di Baghdad e la protesta formale nei confronti di Ankara, che ha motivato l’azione con il pretesto di colpire postazioni dei ribelli curdi del Pkk. Ma a che punto è la complessa questione curda nella Turchia del presidente Erdogan, uscito grandemente vittorioso nelle elezioni politiche del novembre scorso? Roberta Gisotti lo ha chiesto a Valeria Talbot, ricercatrice dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi):
R. – Da luglio 2015, stiamo assistendo a una ripresa dello scontro tra lo Stato turco e il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, che dalla Turchia ma anche dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti viene considerato un’organizzazione terroristica. Questa ripresa dello scontro ha causato centinaia di vittime tra militanti curdi e civili, militari turchi e polizia nelle regioni dell’Anatolia meridionale. Lo scontro mette fine a una tregua durata per oltre due anni e che rientrava in un più ampio processo di pace avviato dal presidente Erdogan all’inizio del 2013, grazie a negoziati segreti avviati con il leader storico in prigione del Pkk, Abdullah Ocalan. La questione curda è una delle più sentite in Turchia. I curdi rappresentano circa il 20% della popolazione turca, che oggi ammonta a 78 milioni di abitanti. È una questione che ha diversi risvolti. Proprio l’Akp – il partito di Erdogan – che è al potere in Turchia dal novembre 2002, era stato il promotore del dialogo con i curdi e di una serie di riforme che nel corso degli anni avevano dato riconoscimenti culturali alla minoranza curda, come l’utilizzo della loro lingua nelle scuole private, nelle trasmissioni locali, l’utilizzo di nomi in curdo. Un processo che comunque nel corso degli anni ha portato anche all’apertura di un dialogo e all’avvio di questo processo di pace volto a mettere fine, a dare una soluzione comprensiva della questione. Da luglio 2015 – come detto prima – invece lo scontro è ripreso: in Turchia sono cambiate diverse cose, ma da più parti, però, si chiede la ripresa del dialogo e dei negoziati di pace perché nelle regioni dell’Anatolia meridionale si sta assistendo a un vero e proprio scontro, di cui si parla poco ma che coinvolge un’intera popolazione.
D. – Dott.ssa Talbot, è pur vero che il mondo intero guarda ai curdi e conta sui curdi per sconfiggere i miliziani del sedicente Stato islamico…
R. – Sì, gli Stati Uniti si sono appoggiati e hanno sostenuto molto i curdi siriani nella lotta contro lo Stato islamico. I curdi sono stati impegnati in prima linea sul campo per fronteggiare lo Stato islamico nelle regioni del Nord della Siria. Questa politica americana non ha trovato il sostegno di Ankara che, comunque, vede nei curdi siriani degli alleati del Pkk. Il grande timore turco è che si crei un’autonomia “de iure” oltre che “de facto” dei curdi siriani, che possa creare dei problemi con la propria popolazione curda e possa costituire un polo di attrazione per la formazione di uno Stato curdo autonomo. Avendo chiaro questo in mente, bisogna guardare l’atteggiamento della Turchia e della politica turca in Siria. La Turchia, dopo essersi unita alla Coalizione anti-Is nell’estate scorsa, ha bombardato tanto le postazioni dell’Is quanto quelle del Pkk. Ha avuto una politica volta a evitare una “saldatura” curda nel nord della Siria che potesse costituire una minaccia al suo confine meridionale.
Fonte:Radio Vaticana

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