Aggiornato il 03/05/18 at 04:39 pm
Segnali di vita in una città sfigurata dalla guerra. A Kobane, simbolo al contempo di macerie e di lotta, da un quarto di secolo c’è un forno che sei giorni su sette produce il pane per i 365 villaggi del circondario e per la città curda a nord della Siria. Cinquanta persone animano una sorta di rituale giornaliero tenendo in vita l’unico….. forno della città siriana, rimasto aperto durante 7 mesi di assedio, che continua a lavorare a pieno ritmo per garantire pane gratis e una quotidianità che invece costa ancora troppo. Da oggi e per i prossimi dieci giorni, a Roma, presso l’Associazione Culturale Pocaluce (in via dei Marsi 59), questo “prodigio” che si ripete ogni giorno è raccontato da una mostra fotografica di Maria Novella De Luca. Abbiamo chiesto alla fotografa, che ha maturato una lunga esperienza in quelle che definisce le “terre dimenticate” del pianeta, di accompagnarci dentro quel forno per farci assaporare questa particolare forma di resistenza. Come hai trovato il forno? Quasi per caso. Lo scorso marzo, dopo giorni di attesa a Suruc – la città resa nota dal terribile attentato – e permessi negati, abbiamo deciso nottetempo di entrare a Kobane. La città era semideserta: c’era sono un ristorante aperto e poco altro. Mi ha sconvolto in gran silenzio e la polvere. Poi ci siamo ritrovati davanti a questo edificio nel quale c’era un viavai di persone: 40, 50 operai che lavoravano lungo la catena che dal magazzino della farina passava per il forno, e poi sul nastro trasportatore fino all’imbustamento. Dove vanno poi quelle buste? All’epoca dei camioncini portavano nei villaggi circostanti quel pane fatto con la farina coltivata in quelle stesse zone, almeno finché il conflitto ha reso possibile l’accesso alle terre. Credo che chi lo produce riceva una forma di sostegno governativo per poterlo distribuire gratuitamente. Ora che la città si sta ripopolando, molte famiglie vanno direttamente al forno a ritirare la loro busta con le pagnotte. In un contesto così provato, che cosa ti ha convinta a fermarti a fotografare proprio lì? Avevo trovato un’attività come se ne possono trovare ovunque in un posto quasi unico per la tragedia che stava vivendo. Se senti nominare Kobane pensi giustamente ad armi e guerra: grazie a quel forno potevo fotografare una storia diversa, con un risvolto positivo, di speranza. Poi questa storia è diventata una mostra. Com’è accaduto? Sono stata a Kobane anche durante le elezioni, e conto di ritornarci presto. Il Kurdistan mi ha un po’ accolto. L’idea della mostra è nata un po’ per caso, ma sicuramente anche dall’esigenza di raccontare con una prospettiva diversa quella terra e quella gente: se è vero che ha imbracciato le armi per resistere, è altrettanto vero che preferisce la farina alla polvere e impastare una pagnotta di pane piuttosto che imbracciare un’arma. Fonte:left.it
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