Aggiornato il 03/05/18 at 04:39 pm
di Catherine Shakdam
Se da tempo il Medio Oriente è un terreno fertile di incertezza politica e tensioni etno-religiose, i nuovi giochi geopolitici degli Stati Uniti nella regione rischiano di aggiungere un ulteriore livello di …. complicazione ad una situazione già impossibile. Mentre tutta l’area si va spaccando sotto il peso della minaccia del terrorismo, lacerata dalla guerra e dall’instabilità politica, gli Stati Uniti giocano con le braci accese dai poteri occidentali all’inizio del XX secolo, quando l’Europa imperialista scelse di spartirsi l’impero ottomano alla stregua di una torta di compleanno.
Diviso in aree dettate dal capriccio di Londra e Parigi, l’ormai infame accordo Sykes-Picot (16 maggio 1916) ha sostanzialmente impostato il tono di decenni d’instabilità e di profondo risentimento etno-religioso in Medio Oriente. Molti dei disordini che abbiamo visto esplodere sulla scia della cosiddetta primavera araba possono venir fatti risalire a quell’opera di ingegneria nazionale. Risultante dall’intenso negoziato tra nazioni dell’Occidente, la cartina politica del Medio Oriente non ha mai riflettuto le realtà nazionali locali, ma è piuttosto l’espressione delle ambizioni e aspirazioni coloniali nella regione.
Tale svista ha avuto un prezzo elevato. Nonostante si potrebbe pensare che gli errori del passato facciano da monito, a ricordare che la costruzione di una nazione richiede più della sola volontà politica per tenere insieme i popoli, sembra che la cronica miopia statunitense per tutto quanto riguarda il Medio Oriente stia sospingendo di nuovo la regione in una direzione pericolosa.
Rinomata per i suoi matrimoni diplomatici di convenienza, Washington sta prendendo in considerazione un’unione con i curdi nel nome dell’interesse tattico, con i politici americani ben consapevoli che i Peshmerga, i militanti curdi, rappresenterebbero l’intermediario militare perfetto contro l’avanzata dell’IS (Stato Islamico) in Iraq. Ma se i curdi si sono già dimostrati in grado di opporsi all’IS nel nord dell’Iraq, l’aiuto di Arbil, la capitale curda, nella guerra al terrore ha un prezzo: l’indipendenza.
Anche se per adesso la Casa Bianca rimane salda (almeno pubblicamente) nella sua volontà di non lasciare che l’Iraq venga frammentato, adducendo motivazioni di sicurezza nazionale, le ambizioni statali del Kurdistan hanno trovato una profonda eco nei corridoi del Dipartimento della Difesa americano. L’improvviso interesse per il Kurdistan ha naturalmente tutto a che fare con il fatto che i Peshmerga si sono dichiarati disponibili ad agire come il braccio militare americano nella regione, un eccellente sostituto per le truppe statunitensi. Con la campagna presidenziale di là da venire, né i Democratici né i Repubblicani desiderano l’incombenza di dover giustificare la perdita di vite americane: le bare allineate sul suolo americano non hanno il sapore del successo elettorale.
Così, lo scorso 30 aprile, il House Armed Services Committee ha passato una bozza programmatica in cui si prevede un pacchetto di aiuti militari del valore di 715 milioni di dollari «per addestrare ed equipaggiare l’esercito iracheno e direttamente i combattenti curdi e sunniti».
Piuttosto che inviare gli aiuti al governo centrale di Baghdad e aver fiducia che tutte le forniture militari vengano dirette dove più servono, il Dipartimento della Difesa ha optato per bypassare lo Stato iracheno e armare direttamente quelle fazioni, come i Peshmerga, che considera alleati tattici contro l’IS. E se il linguaggio usato ha evidentemente toccato un tasto sensibile ad Arbil, Baghdad, dal canto suo, è meno che felice delle pesanti implicazioni politiche che un accordo militare del genere comporterebbe nel lungo termine. Anche se la Casa Bianca ha annunciato, lo stesso giorno della sua approvazione, che si sarebbe opposta alla bozza, ciò non implica che i funzionari statunitensi accantoneranno del tutto l’idea. Ma almeno per adesso, come dichiarato da Marie Harf, portavoce del Dipartimento di Stato americano, durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, «Abbiamo sempre sostenuto che un Iraq unito sia un Iraq più forte, ed è importante anche per la stabilità nella regione. La nostra assistenza militare, le consegne di equipaggiamenti, la nostra politica per quell’area rimangono immutate, vale a dire che tutti i trasferimenti di armamenti devono essere coordinati con il Governo centrale e sovrano dell’Iraq. Riteniamo che questa politica sia il modo più efficace per sostenere gli sforzi della coalizione».
La vera domanda è: fino a quando? Quando si tratta di coerenza e di rispettare le proprie politiche, l’amministrazione Obama non ha esattamente degli ottimi precedenti: stiamo ancora aspettando che il primo ordine esecutivo del Presidente Obama diventi realtà. Ricordate la prigione di Guantanamo Bay?
È qui che la palude dell’Iraq rischia di diventare un barilotto di polvere da sparo. La Casa Bianca vuole che il `linguaggio´ della bozza sia rivisto, e non necessariamente le sue implicazioni. «Attendiamo di lavorare insieme al Congresso su un linguaggio condivisibile per questo importante problema», ha sottolineato Harf il 30 aprile. È possibile che questa schermaglia semantica si protragga sufficientemente a lungo da permettere al Dipartimento della Difesa ed Arbil di organizzarsi e tirate via il tappeto da sotto i piedi di Baghdad. Non sarebbe la prima volta che Washington coglie un alleato alla sprovvista, in questo caso l’Iraq.
Al di là del discorso politico, sembra che il Kurdistan si stia posizionando come il fedele alleato degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo, in una regione devastata dall’instabilità e inquinata da forti sentimenti anti-americani. Diversamente dai Paesi confinanti (Siria, Turchia, Iran e naturalmente Iraq), il Kurdistan è ferventemente pro-America. Inoltre, il Kurdistan e Washington hanno una interessante storia in comune: questo non è il loro primo rodeo.
Il professor Bryan Gibson ritiene che gli Stati Uniti siano stati più solidali di quanto si credesse con le forze curde durante le schermaglie con Baghdad negli anni ’70, suggerendo che Arbil e Washington abbiano una connessione reale.
«Dal 1958 al ’75 la politica estera in Iraq era protesa ad evitare che il Paese entrasse nell’orbita sovietica. Questo ha portato a una serie di operazioni sotto copertura per aiutare quei gruppi all’interno dell’Iraq che si opponevano ai progetti imperialistici di Mosca, come il partito Baath dei primi anni ’60 e i curdi negli anni ’70», ha spiegato Gibson in un’intervista con la testata online Rûdaw lo scorso aprile. Quest’amicizia non ha comunque impedito agli Stati Uniti di abbandonare gli amici curdi nel 1975, quando Saddam Hussein siglò un accordo di pace con lo Scià iraniano.
Oggi la storia sembra ripetersi, almeno nella misura in cui i curdi si sono posti come alleati tattici degli States sia contro l’IS sia contro l’influenza iraniana nel Medio Oriente.
La prova di questo matrimonio geopolitico può essere vista nell’arruolamento cospicuo di ex militari statunitensi da parte di Arbil. I veterani USA vengono reclutati dai curdi per unirsi alle fila dei Peshmerga attraverso un modulo di adesione online. Secondo The Daily Beast, il sito è parte di un più ampio schema di reclutamento chiamato `FRAME´ (Foreigner Registration, Assessment, Management, & Extraction).
Ma se per il momento aiutare il Kurdistan è in linea con gli interessi immediati di Washington, è probabile che altri alleati nella regione si risentano delle ambizioni nazionali di Arbil, primi fra tutti Turchia e Iraq, per i quali uno stato curdo significherebbe perdere sia territorio sia preziose risorse naturali.Traduzione di Elena Gallina
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