Aggiornato il 03/05/18 at 04:39 pm
di Stefano Pasta
«Quanti bambini si chiameranno Kobane!». Così Marco Sandi, 28 anni, spiega il valore simbolico della città che ha resistito all’Isis in Siria. 134 giorni di assedio, dalle prime bombe di inizio settembre…… al 26 gennaio. Quattro giorni dopo la vittoria dei curdi, questo studente di Antropologia di Venezia è stato tra i primi occidentali a entrare in città. O meglio, in quel che ne restava. Camminando tra le macerie, ha filmato ciò che vedeva, accompagnato da Davide “Momo” Mozzato, anche lui dei centri sociali veneti, dai guerriglieri delle Unità di Protezione Popolare (Ypg) e dalle corrispettive forze femminili dell’Ypj. Secondo Ismet Hasan, ministro della Difesa del Cantone, nella battaglia di Kobane sono morti 1.200 jihadisti e 670 combattenti curdi.
Italiani a Kobane
Per Sandi era la seconda volta in due mesi che, con un gruppo attivisti, prendeva un aereo dall’Italia per Istanbul, un altro per Gaziantep, e poi tre ore di furgone fino alla frontiera tra Siria e Turchia. Sono gli italiani di Rojava Calling, un coordinamento di associazioni, centri sociali e collettivi a sostegno dei curdi e della loro regione autonoma in Siria, il Rojava. In Italia organizzano momenti informativi e di raccolta fondi e da ottobre si alternano in una staffetta di solidarietà sul confine turco-siriano. «Per passarlo – dice Egidio Giordano del Laboratorio insorgente occupato di Napoli – bisogna correre oltre il filo spinato, con luci e fucili puntati sulla schiena». Dagli italiani e dai curdi i soldati turchi sono accusati di connivenza con l’Isis: «A novembre – racconta Sandi – durante la mia prima visita, hanno fatto passare un camion che avrebbe dovuto trasportare aiuti umanitari ma che si è poi rivelato un’autobomba dell’Isis che ha ucciso otto combattenti».
Giordano è appena tornato a Napoli dopo un mese e mezzo nel Rojava: «È iniziato il rientro dei profughi, ma la città è ancora vuota e devastata». Per Mustafa Abdi, co-sindaco di Kobane (tutte le cariche sono doppie e di parigrado, una maschile e una femminile), solo il 10% degli edifici è accessibile, ci sono trappole esplosive ovunque e venti persone hanno perso la vita pulendo le macerie. Ancora a fine marzo 800 cadaveri giacevano sotto le macerie e l’odore era insopportabile.
Prima della guerra, nella città vivevano 34mila persone, diventate 120mila a causa del conflitto in Siria e poi quasi tutte fuggite durante l’assedio. Quando l’Isis ha conquistato Mosul, la seconda città dell’Iraq, si è impadronito di armi molto avanzate e ha attaccato Kobane in Siria. «Siamo riusciti a resistere – spiega Abdi – anche in inferiorità numerica di otto a uno, nel momento peggiore controllavamo il 20% dell’area urbana». In quel periodo, gli attivisti italiani erano in contatto con i ragazzi del Media Center, rimasti nascosti nella città per informare di quello che stava accadendo. «Durante i mesi precedenti di autogoverno – continua il co-sindaco – avevamo cominciato l’addestramento delle unità di difesa dell’Ypg e Ypj: ogni famiglia ha dovuto inviare una persona per la formazione. Abbiamo potuto basarci sulle conoscenze dei militanti dell’Hpg e del Pkk, uomini e donne che avevano maturato molti anni di esperienza sulle montagne del Kurdistan settentrionale (Turchia) prima del cessate il fuoco del 2013. Gli Stati Uniti hanno lanciato alcune bombe, ma in nessun caso abbiamo ricevuto armi o munizioni». Quelle sono andate ai peshmerga, i militari del Pdk, tradizionalmente filoamericani e legati al presidente del Kurdistan iracheno Masoud Barzani.
Combattimenti, Newroz e campi profughi
L’Isis ora è tutt’altro che sconfitto, i curdi del Ypg continuano a combatterlo ma la loro avanzata in questo momento si è arrestata. «L’artiglieria pesante continua a sparare», ripetono gli attivisti italiani appena tornati dal Rojava. Il fronte è a 40 chilometri a ovest di Kobane lungo il confine turco, vicino alla città di Jarabulus sull’Eufrate, e 70 a est, a Girê Sipî. Del resto, la capitale del Califfato Raqqa dista 140 chilometri da Kobane. Spiega Antonello Pabis, 68 anni, dell’Associazione sarda contro l’emarginazione: «Ad Hasake nel Cantone di Cizire, uno dei tre che compongono il Rojava, il 20 marzo un attentato dell’Isis ha fatto 35 morti». Festeggiavano la vigilia del Newroz, il Capodanno che ha assunto negli anni una connotazione politica. Il mito narra di una rivolta popolare capitanata dal fabbro Kawa contro Dehok, un tiranno che sulle spalle aveva una coppia di serpenti da nutrire ogni giorno con il cervello di due giovani. Da quella vittoria la leggenda fa risalire la nascita del popolo curdo, fin dal principio di indole resistente e determinata. Kawa accese immensi fuochi sulle vette delle montagne per comunicare la notizia a tutto quanto il paese. Per questo, oggi i 25-35 milioni di curdi della Turchia, Siria, Iran e Iraq festeggiano il Newroz accendendo grandi falò. «In quello di Diyarbakir – racconta Pabis che ha partecipato con otto italiani della delegazione sarda – c’erano due milioni di persone».
Durante i dieci giorni di permanenza, gli attivisti sardi hanno consegnato medicinali, pennarelli e quaderni per i campi profughi. Nel Kurdistan turco, sono 250mila gli sfollati curdi e 50mila gli yazidi. 15mila (anche se la disponibilità è di 45mila) sono ospitati nellunico campo dell’Afad, l’agenzia governativa turca, mentre gli altri vivono nei campi delle autorità curde con cui collaborano gli italiani di Rojava Calling. Oltre all’invio di aiuti, i bolognesi di Ya Basta e i centri sociali veneti stanno finanziando la costruzione di sei campi gioco con area verde su richiesta della municipalità curda di Suruç. La Staffetta Romana, a cui partecipano medici volontari, si occupa di inviare materiale sanitario. «Le testimonianze ascoltate – dice Sara Montinaro di Ya Basta – confermano le brutalità dell’Isis, che usa come arma l’accanimento verso le donne, stuprate, vendute al mercato e uccise». Lei era una delle sette italiane della delegazione internazionale degli Avvocati Democratici (13 membri, tutte donne) che ha visitato i campi per scrivere un dossier che sarà presentato a giugno al Consiglio dei Diritti umani dell’Onu a Ginevra. Aggiunge: «Quasi tutti i campi hanno un comitato di autogestione con metà componente femminile. Inoltre è molto positiva la presenza di gruppi di donne che supportano le vittime delle violenze».
Il confederalismo democratico del Rojava
La vicinanza degli attivisti italiani a Kobane è legata anche all’esperimento politico in corso tra i curdi della Siria. È il confederalismo democratico della Carta del Rojava, il “contratto sociale” alla base della regione autonoma. Nelle missioni in Siria, le staffette italiane vengono accompagnate dai soldati con il drappo rosso, giallo e verde, i colori del Rojava, a vedere come sono amministrati i tre Cantoni. Parità tra i generi, ecologia, democrazia dal basso, rispetto delle minoranze e delle religioni. Sottolinea Sandi: «Ha un valore particolare che avvenga in Medio Oriente, tra emiri, califfi e generali autoritari». Quello che più colpisce, in una società che è a maggioranza islamica, è il ruolo delle donne. In mimetica e kalashnikov combattono nelle file dell’Ypj. Egidio Giordano racconta: «Ci colpisce sempre la gentilezza dei compagni e delle compagne curde. Per noi la loro lotta è una nuova Resistenza partigiana contro i fascisti dell’Isis, che impongono la religione come dogma così come il fascismo faceva con lo Stato e con il nazionalismo come suo corollario». Per questo accostano il 25 aprile al 26 gennaio, la liberazione di Kobane.
In ogni caso, tutta la Rete di solidarietà con il popolo curdo sta promuovendo in Italia una campagna a favore del Rojava e del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), nato in Turchia e famoso per il capo Ocalan, vicino all’Ypg. Per gli attivisti italiani qui c’è un paradosso: il Pkk combatte l’Isis, ma dal 1997 è incluso tra le formazioni terroriste dal Dipartimento di Stato americano e dal 2002 dall’Unione europea. Negli ultimi mesi, la loro mobilitazione ha ottenuto due risultati: a novembre il Senato italiano ha chiesto al Governo di promuovere la cancellazione del Pkk dalle liste dei terroristi, mentre il 23 aprile il Campidoglio ha approvato il gemellaggio tra Roma e Kobane.
Chi ha imbracciato il kalashnikov
Tra gli occidentali che si sono mobilitati a favore dei curdi c’è anche chi ha scelto la lotta armata. Karim Franceschi, marchigiano di 26 anni, madre marocchina e padre italiano, ha combattuto nelle file dell’Ypg. A inizio aprile è tornato a Senigallia, dopo aver sparato contro l’Isis per una scelta personale nata tuttavia nella vicinanza dei centri sociali ai curdi. La prima volta era infatti andato nel Rojava con la staffetta marchigiana, poi a gennaio ha deciso di andare a combattere stupendo anche i suoi compagni dell’Arvultùra: «Abbiamo capito che era vero – dicono – solo quando ci ha mostrato i biglietti aerei e lasciato una lettera». Dopo tre mesi al fronte, Franceschi è tornato in Italia vivo, a differenza di un altro “italiano”: Salman Talan, 23 anni, curdo cresciuto a Milano, morto il 27 gennaio a Sengal mentre combatteva con il Pkk. Era uno dei tanti curdi tornati in patria dagli Stati europei per sconfiggere l’Isis. Tra i caduti sul fronte turco-siriano si contano altri “martiri occidentali”. C’è Ivana Hoffman, diciannovenne tedesco-congolese di Duisburg, che combatteva con il Partito Marxista Leninista (Mlpk) ed è stata uccisa a Til Temir il 7 marzo. Due settimane prima è morto Johnston Ashley, un riservista australiano arruolatosi nell’Ypg, mentre l’ex marine inglese Konstandinos Erik Scurfield è rimasto sul campo di battaglia il 2 marzo. Tutti “foreign fighters al contrario”, stranieri caduti in Siria lottando conto le bandiere nere del Califfato.
Fonte:corriere della sera
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