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Aggiornato il 20/02/25 at 10:01 am
di Gianni Sartori————Sono bastati soltanto cinque giorni di rastrellamenti in una cinquantina di province (Istanbul, Ankara e nelle regioni a maggioranza curda dell’est del Paese) per consentire alle autorità di Ankara di arrestare oltre 300 persone (almeno per ora, 18 febbraio). Tra loro diversi esponenti del partito DEM (la terza forza nel parlamento, attiva nelle trattative in corso tra governo turco e curdi) e almeno tre giornalisti.
Stando alle dichiarazioni ufficiali del ministro dell’interno Ali Yerlikaya, tra loro ci sarebbero numerosi militanti del Partito dei Lavoratori Kurdi. Accusati automaticamente di “appartenenza a un’organizzazione terroristica”. Paradossale che questo avvenga mentre gli emissari del governo turco stanno di fatto trattando per una “soluzione politica del conflitto” (ossia per la fine della lotta armata) con chi è considerato il principale leader del PKK, Abdullah Öcalan (in carcere da 26 anni a Imrali). Per quanto riguarda il partito DEM (Partito dell’uguaglianza dei popoli e della democrazia) questi arresti di massa “così come la recente destituzione di numerosi sindaci (almeno una decina nda), segnalano la mancanza di sincerità del governo nella ricerca della pace”.
Ricordo che recentemente, in due occasioni, una delegazione del Partito DEM era stata autorizzata a incontrare il prigioniero politico Öcalan. Delegazione che in questi giorni si trova nel nord Iraq per discutere delle prospettive con le autorità della regione autonoma (sia Massoud Barzani del PDK che Bafel Talabani, presidente dell’Unione Patriottica del Kurdistan).
Per alcuni osservatori questo atteggiamento del governo turco, apparentemente contraddittorio, in realtà mira a “conquistare una posizione vantaggiosa nelle negoziazioni, con la minaccia sottintesa che se le trattative non andassero a buon fine, il governo è pronto per rafforzare la repressione sul DEM e sui curdi”.
E non sarebbe irrilevante il fatto che Recep Tayyip Erdogan ha lasciato sostanzialmente in mano al suo alleato del partito di destra MHP, Devlet Bahceli, la prosecuzione delle trattative.
Questo gli consentirebbere di procedere nei negoziati con il PKK senza apparirvi direttamente coinvolto.
Alquanto significativo del clima che si respira attualmene in Turchia il fatto avvenuto il 17 febbraio.
Quando un deputato del Partito DEM, Newroz Uysal, è stato violentemente colpito (anche quando era a terra e sotto gli occhi delle telecamere) dalla polizia nel corso di una manifestazione a Van contro le destituzioni dei sindaci. Nella stessa circostanza venivano arrestati dozzine di manifestanti.E mentre la Turchia continua a colpire i curdi anche nel Rojava (soprattutto i soggetti più “fragili”, indifesi; da dicembre diversi studenti e insegnanti sono morti a seguito del bombardamanto di alcune scuole) la situazione appare tuttaltro che risolta, tranquilla nel resto della “nuova” Siria. Soprattutto per le minoranze e per le donne. Stando a quanto dichiarato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR) nelle prime due settimane di febbraio sono state rapite almeno altre nove donne.
Il 1 febbraio una ragazza è stata sequestrata in strada nella zona di Jableh (Latakia) e nello stesso giorno un’altra nella regione di Safitaya.
Il 2 febbraio una studentessa dell’Università di Damasco veniva rapita nell’area rurale di Jaramana.
Il 3 febbraio una giovane scompariva dal campo di Homs mentre un’altra risultava rapita nell’accampamento di Nayrab (Aleppo).
Il 4 febbraio si registrava il rapimento di una donna nel villaggio di Jeboreen (Homs).
Altra giovane scomparsa in circostanze non chiare l’8 febbraio a Homs.
Il 13 febbraio un’altra studentessa universitaria veniva rapita mentre si recava all’Ospedale Miwasat.
Il 15 febbraio una studentessa palestinese veniva sequetrata mentre si iscriveva agli esami. La famiglia ha denunciato che i sequestratori esigevano un riscatto.
Va poi sottolineato che della maggior parte delle donne rapite non si conosce la sorte.
Insomma, nonostante le rassicuranti dichiarazioni del nuovo potere insediato a Damasco (con Ahmed al-Sharaa nominato presidente), la situazione resta assai preoccupante. Non solo per i curdi, ma per tutte le minoranze sia etniche che religiose (cristiani, sciiti…). Molti aleviti sono stati uccisi o minacciati e le prospettive per le donne in generale rimangono alquanto incerte.
Per dirne un paio, quale sarà la sorte delle combattenti curde delle YPJ a cui – stando a quanto dichiarato – non verrebbe mai consentito di integrarsi nell’esercito siriano (come invece veniva prospettato, se pur con riserva, per gli uomini). E dove mai dovrebbero emigrare tutti quei curdi che hanno combattuto in Siria contro l’Isis provenendo da altre parti del Kurdistan (Bakur, Bashur, Rojhilat) ?
Tuttavia, come ha dichiarato in un’intervista del 17 febbraio all’Agenzia di Stampa del Nord, Mazloum Abdi (comandante delle Forze Democratiche Siriane – SDF) il dialogo con Damasco non si è interrotto.
Augurandosi che Ahmed al-Sharaa “possa guidare la Siria in questa fase di transizione tanto delicata”, invitandolo a visitare dopo Afrin anche le città del Nord e dell’Est e confermando che le SDF “intendono appoggiare ogni sforzo che possa contribuire alla stabilità e all’unità nazionale”.
E comunque nonostante le innumerevoli difficoltà e incertezze, i curdi non demordono. In un comunicato del 18 febbraio (ma con riferimento agli eventi del giorno precedente, il 17), le SDF annunciavano che “i nostri combattenti completavano positivamente un’operazione contro i mercenari dell’occupante turco sul fronte di Deir Hafer. Nel corso dell’operazione venivano eliminati due mercenari, altri risultavano feriti e un veicolo militare veniva distrutto”.
Contemporaneamente altre postazioni dei filoturchi venivano attaccate nel villaggio di al-Imam.
Sull’altro fronte incandescente, quello della diga di Tishreen, nel corso della stessa giornata le unità Harún hanno attaccato gruppi di mercenari in prossimità della collina Syriatel e del villaggio di Haj Hussein causando numerose perdite.
Da parte loro i turchi proseguivano nel bombardare, sia con l’aviazione che con con l’artiglieria pesante, l’area della diga colpendo gli alloggi dei lavoratori.