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Aggiornato il 06/02/25 at 01:24 pm
di Shorsh Surme –——-L’incontro tra Netanyahu e Trump a Washington è molto più di una discussione sulla tregua a Gaza: è un passaggio chiave nel riallineamento degli equilibri in Medio Oriente e un test per la nuova amministrazione americana. Netanyahu arriva a Washington in un momento delicato. Sul fronte interno, è sotto pressione da due direzioni opposte: da un lato, i falchi del suo governo, come Bezalel Smotrich, spingono per una ripresa immediata delle operazioni militari a Gaza; dall’altro, l’opinione pubblica israeliana e le famiglie degli ostaggi chiedono un accordo per la liberazione dei prigionieri ancora nelle mani di Hamas. Il rischio politico per Netanyahu è evidente: se cede troppo ai falchi, rischia l’isolamento internazionale; se insiste sulla tregua, potrebbe perdere il sostegno della sua fragile coalizione di governo.
Per Trump l’incontro è un’opportunità per riaffermare il ruolo degli Stati Uniti come mediatori, ma anche per rilanciare un’agenda più aggressiva in Medio Oriente. L’ex presidente ha già proposto soluzioni radicali, come il trasferimento dei palestinesi da Gaza verso Egitto e Giordania, un’idea respinta da tutta la regione araba. Se da un lato cerca di presentarsi come artefice della tregua, dall’altro potrebbe usare la crisi per rafforzare la sua posizione nei confronti di Israele, magari spingendo per un nuovo accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita.
Il nodo centrale resta Hamas. L’organizzazione palestinese ha posto condizioni rigide: il rilascio degli ostaggi deve essere legato alla fine definitiva della guerra e al ritiro delle truppe israeliane da Gaza. Netanyahu non può accettare un compromesso del genere senza perdere la faccia, ma al tempo stesso sa che un conflitto prolungato erode il sostegno internazionale a Israele. Washington, che formalmente appoggia l’alleato israeliano, non vuole però che il conflitto continui all’infinito, soprattutto per il rischio di un’escalation con l’Iran e i suoi alleati regionali.
E proprio l’Iran è il convitato di pietra di questo summit. Se Netanyahu e Trump discuteranno della tregua, parleranno anche delle ambizioni nucleari di Teheran. Con un Medio Oriente in piena trasformazione – tra il riavvicinamento tra Siria e Turchia, l’influenza crescente di Mosca e Pechino e l’incognita saudita – l’Iran resta il principale rivale strategico di Israele. Trump potrebbe tentare di rilanciare un’offensiva diplomatica (o militare) contro Teheran, sfruttando la crisi in corso.
Infine la visita ha anche un peso giudiziario. Netanyahu arriva negli Stati Uniti con un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale pendente su di lui. Gli USA non riconoscono la giurisdizione della CPI, ma la sua posizione rimane politicamente sensibile. Per Netanyahu, ottenere una forte dichiarazione di sostegno da parte di Trump potrebbe rafforzarlo a livello internazionale, ma la questione giudiziaria resta una spada di Damocle sulla sua leadership.
In definitiva questo vertice non è solo un incontro di routine. È il punto di snodo di una crisi regionale che, a seconda di come si evolverà, potrebbe ridisegnare le alleanze in Medio Oriente e determinare il futuro della guerra a Gaza.