Aggiornato il 04/02/25 at 03:36 pm
di Gianni Sartori————-Significativo che anche L’ONG Médecins sans frontières (MSF) vada denunciando le operazioni militari turche nei pressi della diga di Tishrīn (difesa dalle forze arabo-turche delle FDS e in particolare dalle YPJ).Attacchi che infieriscono sulla popolazione civile, colpendo anche operatori sanitari e ambulanze presenti in zona.Dal comunicato si apprende che i portavoce di MSF si dicono “profondamente preoccupati per l’incremento di violenza nel nord della Siria, nella regione di Manbij e della diga di Tishrīn, in particolare per gli attacchi alle ambulanze che hanno causato ferite mortali agli operatori sanitari. Questi atti ostili rischiano di impedire l’aiuto umanitario e l’assistenza indispensabile per le popolazioni del nord-est della Siria.Ci appelliamo a tutte le forze belligeranti affinché vengano prese misure adeguate per proteggere i civili, il personale sanitario e le strutture mediche, in conformità al diritto internazionale”.
Ulteriori prove della brutalità con cui agiscono l’aviazione turca e i suoi alleati jihadisti provengono dalle immagini estratte da un drone turco abbattuto dalle Forze democratiche siriane (FDS) nei pressi della diga contesa. Vi si riconoscono chiaramente un insediamento militare con molti soldati turchi, veicoli blindati e altri mezzi di trasporto, un campo di addestramento e basi di lancio per droni Bayraktar-Akanci da inviare su Tishrīn. Dove, ricordiamo, dall’8 gennaio i droni armati hanno già ucciso oltre una ventina di civili (più di 120 i feriti, molti in maniera grave).
Ulteriore conferma, caso mai ce ne fosse stato bisogno, della diretta responsabilità turca nei crimini di guerra qui perpetrati. In particolare con il bombardamento del 15 gennaio contro i civili che protestavano pacificamente in difesa della diga. Attacco in cui hanno perso la vita gli operatori sanitari Omer Hesen, Hêza Mihemed e Edhem Elî. Così come Osman Îbrahîm, membro del Consiglio dell’Amministrazione Autonoma del Cantone dell’Eufrate (oltre a una ventina di civili feriti nella medesima circostanza).
Successivamente era deceduta anche Ronîz Mihemed Elî, rimasta gravemente ferita.
Altre vittime civili, tra cui altri due giornalisti, nella giornata del 21 gennaio.
Quello della diga è diventato un autentico “punto critico” (come denunciano le FDS) in quanto, in caso di crollo, si potrebbe dover assistere a un vero disastro ambientale e umanitario.In un comunicato del 22 gennaio, l’AANES si è rivolta alla Comunità internazionale e alle organizzazioni giuridiche e umanitarie affinché prendano posizione e intervengano con misure adeguate per impedire ulteriori attacchi volti alla distruzione dell’infrastruttura (definita di “importanza vitale sia come fonte di acqua che di energia”) in aperta violazione del diritto internazionale e umanitario.
In risposta agli attacchi di Ankara e delle bande filo-turche, la popolazione del nord e dell’est della Siria non è rimasta a subire passivamente. Aderendo alla dichiarazione di mobilitazione generale dell’AANES. Tra le tante organizzazioni impegnate nella resistenza, va segnalata quella di TEV-ÇAND, un’organizzazione culturale che che ha scelto di parteciparvi direttamente.
Come ha dichiarato in una intervista con l’agenzia ANF la co-presidente Sumeya Mihemed “ TEV-ÇAND ha costituito dei comitati mettendo in campo iniziative per sostenere la nostra gente che si vede ormai costretta a emigrare a causa dei continui attacchi (…). Denunciando con forza quanto sta avvenendo da tempo nel nord-est della Siria: “Abbiamo potuto vedere come il popolo di Afrin sia stato oggetto di una migrazione forzata. E più recentemente la stessa situazione si è registrata a Shehba”.
Ma la situazione potrebbe degradarsi ulteriormente a causa del campo di al-Hol (posto a circa 40 km. a sud della città di al-Hasakah) dove la situazione, con decine di migliaia di famiglie di esponenti di Daesh qui presenti (per un totale di circa 40mila persone, donne e bambini compresi, sia iracheni che siriani e di altre nazionalità) sta precipitando nel caos. Sia per gli intensi attacchi turchi che per l’insorgenza delle cellule dello Stato islamico (ormai non più “dormienti”) presenti anche all’interno del campo.Finora la situazione era rimasta relativamente sotto controllo, grazie anche all’operazione “Sicurezza permanente” avviata dalle Forze di sicurezza interna (Asayish), dalle FDS e dalle Unità di protezione delle donne (YPJ) nel 2024. Ma ora è andata aggravandosi sia sul piano della sicurezza che umanitario.
Si registrano infatti tentativi quotidiani di uscire clandestinamente approfittando delle incerte condizioni atmosferiche (pioggia, nebbia, preferibilmente di notte) e delle inevitabili “falle” nella gestione del campo molto esteso. E non è certo impensabile che molti ex miliziani, approfittando del caos ingenerato dagli attacchi turchi, stiano tentando di raggiungere le linee turco-jihadiste per integrarsi nelle milizie mercenarie di Ankara. Nella prospettiva di lunga durata della ricostituzione del califfato. Una vera e propria potenziale “bomba a scoppio ritardato”.
Va poi messa in evidenza quella che appare sempre più come una palese contraddizione, difficilmente risolvibile.
Come segnalato anche da Kawa Fatemi (difensore dei diritti umani) e dallo scrittore Azhar Ahmed. Ossia tra i tentativi dello Stato turco di arrivare a una negoziazione con il prigioniero politico Abdullah Öcalan (disponibile, stando alle ultime su dichiarazioni a “passare dalla guerra al dialogo”) e la dura repressione a cui nel contempo Ankara sottopone la popolazione curda.
Come si può conciliare la prospettiva di una “soluzione politica del conflitto” con i bombardamenti degli insediamenti civili nel Rojava (per estipare l’esperienza del Confederalismo democratico) e l’arresto di giornalisti e dissidenti in Bakur?
Lecito sospettare di una intenzionale operazione per alimentare la confusione e seminare terrore e caos. O almeno guadagnare tempo, distrarre l’opinione pubblica dall’evidente crisi interna in cui versa la Turchia e tentare di mettere il movimento curdo con le spalle al muro, costringerlo alla resa.
Difficile che ci riescano comunque.