Aggiornato il 12/02/23 at 10:05 pm
di Gianni Sartori——Di fronte all’apocalisse umanitaria innescata dal terremoto del 6 febbraio e aggravata dalle condizioni atmosferiche (oltre che da incapacità: ancora a cinque giorni di distanza dal sisma in molte zone del Bakur non c’era traccia dei soccorsi), il primo istinto sarebbe quello di starsene rispettosamente zitti.
Ma poi riandando col pensiero a quanto accadeva in passato (prendiamo un anno a caso, il 2016, tanto uno vale l’altro)*** sorge il dubbio che in fondo questa sia ordinaria amministrazione, o quasi. Almeno per i Curdi. Il cui nemico principale rimane il colonialismo (rinviando a tempi migliori il dibattito se sia “colonialismo interno” o colonialismo tout court). Anche in tempi di terremoti e catastrofici cosiddette “naturali”.
LA TURCHIA? SCARSA IN PROTEZIONE CIVILE, MA EFFICACE NEI BOMBARDAMENTI
A ulteriore conferma la notizia che (mentre il PKK annunciava la temporanea sospensione delle attività in questi tragici frangenti) da parte sua Ankara proseguiva imperterrita con le operazioni militari oltre frontiera contro le posizioni delle Forze di Difesa del popolo (HPG, il braccio armato del PKK) nel Sud-Kurdistan (Basur, entro i confini dello Stato iracheno). Indifferente alla lista inesauribile delle vittime (al momento oltre 22mila, in gran parte curdi, ma a migliaia rimangono ancora sotto le macerie). Quasi che le lampanti carenze nel soccorrere le popolazioni disastrate (per non parlare della mancanza di misure di prevenzione o della serie infinita di condoni edilizi per costruzioni non a norma) andassero di pari passo con brillanti prestazioni belliche.
Il 9 febbraio – stando a quanto denunciavano le HPG – la Turchia avrebbe utilizzato almeno “due bombe non convenzionali (proibite dalla Convenzione di Ginevra nda) contro le posizioni della guerriglia a Çemço e nei pressi del villaggio di Sîda”.
Inoltre “le posizioni della resistenza situate a Sheladizê (regione di Zap) così come la zona di Girê” sarebbero state bombardate decine di volte con obici, armi pedanti e carri armati. Ossia con armi convenzionali.
Al contrario, consapevole della estrema gravità della situazione, il movimento curdo – tramite il copresidente del consiglio esecutivo del KCK (Unione delle Comunità del Kurdistan) Cemil Bayik – aveva prontamente comunicato la sospensione delle azioni militari in tutta la Turchia. Salvo, ovviamente, difendersi da eventuali attacchi da parte dello Stato turco.
Del resto cosa ci si poteva aspettare da Erdogan?
Già il 6 febbraio, a poche ore dal sisma, la regione di Tall Rifaat (Rojava, nord della Siria) veniva bombardata dai turchi.
Da parte loro, le Hêzên Rizgariya Afrinê (HRE, Forze di Liberazione di Afrin) smentivano ufficialmente quanto dichiarato dal ministero turco della Difesa. Ossia che “le YPG stanziate a Tall Rifaat avevano attaccato la base militare di Öncüpinar”. Per il semplice e incontestabile motivo che “le IPG non hanno unità a Tel Rifat”. Così come le HRE “non hanno attaccato le basi nemiche in questo momento in cui il nostro popolo è stato pesantemente colpito da violento terremoto”.Va ricordato che l’AKP (il partito di Erdogan, attualmente al governo con MHP) è al potere ormai da 20 anni e – pur sapendo che il nord del Kurdistan e la Turchia, situate su linee di faglia, sono esposte ai terremoti- non aveva preso misure adeguate. Anche per questo si è assistito al crollo repentino di migliaia di abitazioni, alla distruzione di intere città, alla perdita di migliaia di vite umane.
Ad aggravare la situazione, la notizia che nel distretto di Jindires (cantone di Afrin, nord della Siria) attualmente sotto l’occupazione dell’esercito turco e delle bande jihadiste sue alleate, le popolazioni curde sopravvissute al sisma verrebbero ulteriormente penalizzate. Alcuni convogli umanitari (oltre 30 camion) inviati dall’amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria sono bloccati ormai da una settimana al posto di frontiera di Umm al-Julud (tra Manbij e Jarablus). Per mano appunto delle bande jihadiste che in compenso dirottano gli aiuti esclusivamente ai coloni arabi installati nel cantone di Afrin in un’operazione di vera e propria sostituzione etnica.
In un comunicato le FDS (Forze democratiche siriane) hanno denunciato il fatto dichiarando che “il rifiuto di accesso agli aiuti da parte delle persone bisognose è considerato un crimine contro l’umanità dal diritto internazionale”.
Del resto non mancano i precedenti se – come ricordano sempre le FDS “la Turchia e le sue gang armate impediscono da oltre un anno il rifornimento di acqua potabile a circa un milione e mezzo di persone che vivono ad al-Hasakah”.
Note (anno 2016, uno a caso)***
Cosa aspettiamo a inviare osservatori nella città curda di Nusaybin, decimata dai turchi?