Aggiornato il 18/01/23 at 08:21 pm
Di Gianni Sartori ——Questa la notizia. Un giovane curdo, Mehmet Akar si è suicidato dandosi fuoco il 16 gennaio ed è deceduto all’ospedale il giorno dopo a causa delle ustioni.
Dire che Abdullah Öcalan per il popolo curdo rappresenta quello che Mandela ha rappresentato per i Neri discriminati del Sudafrica (all’epoca dell’apartheid) è tanto ovvio, scontato da apparire quasi superfluo. Così come paragonare l’isola-prigione di Imrali a Robben Island.
Possiamo quindi immaginare quanto grande sia la preoccupazione, la disperazione di questo popolo per la sorte del loro leader, imprigionato dal 1999 e di cui da tempo non si hanno notizie sicure. Al punto da temere che non sia più in vita.
Detto questo, mi trovo combattuto tra la comprensione, il rispetto per questo ennesimo gesto estremo e la considerazione che tale atto sia stato – purtroppo – tanto doloroso quanto inutile.
L’opinione pubblica internazionale appare ormai assuefatta, indifferente. Cinica a volte. Per cui nemmeno questa morte tremenda servirà a scuoterla.
Mehmet, tassista venticinquenne, ha scelto di immolarsi per protestare (come aveva spiegato in un messaggio scritto in precedenza) contro l’isolamento a cui Öcalan viene sottoposto nel carcere di Imrali.
Solo qualche giorno fa, per le stesse ragioni, un altro curdo, Veysi (Bubo) Taş (65 anni) si era ugualmente immolato a Mardin Artuklu.
Per compiere il suo atto di protesta Mehmet Akar ha scelto un quartiere nella zona centrale di Diyarbakir.
In passato sia Mehemet che i suoi familiari avevano subito pressioni e angherie da parte delle autorità locali. Nel 2019 la madre veniva coinvolta – e strumentalizzata – in una torbida operazione propagandistica organizzata dalle autorità turche. Partecipando, presumibilmente in buona fede, a una protesta filogovernativa (una veglia denominata “Diyarbakır Anneleri”) davanti alle sede del Partito democratico dei popoli (HDP). Evento ampiamente e favorevolmente commentato dai media filogovernativi come l’Agenzia Anadolu. La donna era stata evidentemente ingannata e convinta che Mehemet fosse stato arruolato a forza nel PKK. Ma dopo qualche giorno era intervenuto lui stesso per spiegare (nella sede dell’agenzia di stampa Mezopotamya) che si era allontanato spontaneamente da casa per ragioni personali (forse per evitare un matrimonio combinato). E aveva denunciato come in realtà sua madre “era stata manipolata” dai servizi segreti turchi (il MIT) che avevano orchestrato la manifestazione anti PKK.
Inoltre era stato rinchiuso per una settimana nel posto di polizia di Diyarbakır e rimesso in libertà solo con un braccialetto elettronico.
Nel frattempo, nonostante la denuncia fatta da Mehmet Akar, le veglie davanti alla sede di HDP continuano.
Anche famiglie notoriamente simpatizzanti della causa curda verrebbero costrette (sia con minacce che con offerte in denaro o di un posto di lavoro) dalle forze di sicurezza a prendervi parte.