Aggiornato il 25/12/21 at 04:50 pm
di Gianni Sartori —- A volte una foto può spiegare una situazione, un contesto storico più di mille parole.
Quella a cui sto pensando è in bianco e nero ed è stata realizzata quaranta anni fa. Un nonno piange, la mano sul volto, accovacciato, quasi di spalle, sulla tomba (un cumulo di terra) del figlio Ali Qorbani giustiziato dal regime iraniano. Vicino a lui, ugualmente accovacciato, quasi fosse intento a giocare con i sassi, il nipotino di sette anni, Haydar Qorbani. A sua volta giustiziato qualche giorno fa, il 19 dicembre.
Stando all’agenzia che ha ritrovato l’immagine, il nonno di Haydar potrebbe essere ancora in vita e possiamo soltanto immaginare a quale dolore sia stato sottoposto una seconda volta. Ieri il figlio, oggi il nipote. Entrambi assassinati per essere curdi e non asserviti al regime di Teheran.
Regime che – non soddisfatto di averlo impiccato – ha anche impedito che Haydar venisse sepolto vicino a suo padre.
Per la cronaca: le esecuzioni compiute in Iran dal 21 novembre 2021 sono state 35 (quelle accertate almeno).
Nella maggioranza dei casi si trattava di curdi o di esponenti di altre minoranze. E notoriamente Teheran non concede sconti alle donne.
Arrestato cinque anni fa (insieme al cognato, nell’ottobre 2016), Haydar Qorbani era rinchiuso nel carcere di Sine (Sanandaj). Definire il processo a cui venne sottoposto una parodia sarebbe un eufemismo. In assenza di avvocato, la sua “confessione” era stata estorta dopo mesi e mesi durante i quali veniva sottoposto alla tortura.
Non solo.
Sempre con le minacce e le torture veniva costretto a dichiararsi colpevole davanti alle telecamere della catena iraniana Press TV.
Inizialmente le autorità si erano rifiutate di consegnarne il corpo alla famiglia che avrebbe voluto seppellirlo nella sua città natale. Questo dopo che per venti mesi non gli era stato concesso di poter incontrare i parenti.
Solo dopo le sue pubbliche “confessioni” in televisione gli era stato concesso un breve colloquio telefonico. Un fratello che aveva protestato pubblicamente per le evidenti violazioni procedurali era stato a sua volta arrestato.
La condanna a morte per “appartenenza e presunta collaborazione con il Partito democratico del Kurdistan d’Iran (PDK-I)” era stata emessa dal tribunale “rivoluzionario” di Sine e resa definitiva dalla Corte suprema nell’agosto 2020.
Accusato di aver preso parte all’uccisione di tre basij (una milizia paramilitare) in precedenza, nell’ottobre 2019, era stato condannato a 118 anni di carcere per “complicità nell’omicidio, sequestro di persona e favoreggiamento”. Tutte accuse da lui respinte (o almeno prima di essere a lungo torturato). In seguito il suo caso era stato riesaminato ed era stato accusato di “rivolta armata contro lo Stato”. Da cui la condanna a morte (nonostante anche il tribunale avesse riconosciuto che non era armato). Contro tale arbitraria esecuzione si erano espresse numerose organizzazioni per la difesa dei diritti umani, tra cui Amnesty International. Nell’estate del 2020 (dopo l’esecuzione di altri due prigionieri politici curdi: Diaku Rasoulzadeh e Saber Sheikh Abdollah), anche in riferimento al caso di Haydar Qorbani, A.I. aveva denunciato l’utilizzo della pena di morte in Iran “come strumento di repressione politica contro manifestanti, dissidenti e membri delle minoranze”.
Tutti soggetti non omologati e accusati, indistintamente e fantasiosamente, di “moharabeh (inimicizia nei confronti di Dio) oppure di “efsad f’il art” (diffusione della corruzione sulla terra). In genere dopo che le “confessioni” erano state estorte con la tortura.
Destino tragico dicevo quello della famiglia Qorbani.
Anche il padre di Haydar era stato assassinato dal regime iraniano.
Come molti curdi anch’egli aveva partecipato alla rivoluzione alla fine degli anni settanta, ma solo per accorgersi che per i curdi nulla sostanzialmente era cambiato (soprattutto in termini di libertà e autonomia) e si era integrato nell’opposizione.
Da segnalare anche un recente caso di persona curda “desaparecida”. Il 12 dicembre la militante ecologista Kazhal Nasri (già convocata e sottoposta a interrogatorio qualche mese fa) è stata sequestrata (letteralmente, senza nemmeno un mandato di perquisizione) in casa sua dai servizi segreti iraniani. Da quel momento nessuno ne ha avuto notizie e non si conosce il luogo dove viene trattenuta.