Aggiornato il 09/06/21 at 10:21 pm
di Chiara Cruciati ( il Manifesto) —– L’altra metà dell’Iraq. Rapite e vendute come schiave da Daesh dopo il massacro del 2014, hanno preso le armi per difendersi. E oggi guidano la rinascita. Ma all’appello ancora ne mancano 1.117. A Shengal si curano le ferite di un dramma collettivo
Shengal (Iraq), 9 giugno 2021, Nena News – «Quel giorno le donne sono state il primo obiettivo». Heza parla a bassa voce, seduta accanto ai suoi compagni nella sede delle unità di autodifesa ezide di Khanasur. È avvolta nell’uniforme delle Yjs, le unità femminili, sul collo lo scialle colorato, di fronte un gruppo di giornalisti italiani e di membri dell’Associazione verso il Kurdistan.
HEZA È UNA DELLE 5MILA DONNE rapite dallo Stato islamico dopo il massacro del 3 agosto 2014 nella regione nord-occidentale irachena di Shengal. Rapite, vendute, passate di mano in mano, stuprate. «Quando Daesh ha lanciato l’attacco – racconta – ero nel mio villaggio. Abbiamo tentato di fuggire ma i peshmerga (le forze militari del Kurdistan iracheno, ndr) ce lo hanno impedito. Quando alla fine abbiamo trovato una via per scappare in montagna, Daesh era già arrivato».
«Ci hanno portato nei mercati delle schiave, abbiamo patito quel massacro più di chiunque altro – continua – Quando sono stata liberata, la mia coscienza non poteva sopportare l’idea di non vendicare quello che mi avevano fatto e di non liberare le donne che erano ancora prigioniere». Per questo si è unita alle Yjs
GLI ANNI SUCCESSIVI alla liberazione di Shengal sono stati anni di ricostruzione, fisica e psicologica, individuale e collettiva. Una ricostruzione ancora in fieri, indebolita dall’assenza di metà della popolazione originaria: 250mila dei 500mila ezidi di Shengal è ancora profugo o vive in diaspora e all’appello mancano centinaia di donne, mai trovate.
Il peso di quel massacro schiaccia soprattutto le donne, in questo Daesh ha raggiunto – in parte – l’obiettivo che si prefissava: sfaldare la società, i rapporti personali, le relazioni familiari in una comunità che nei secoli si è chiusa in se stessa, sperando così di allontanare la minaccia dell’ennesima persecuzione, e che si è affidata alla guida spirituale di sheikh che hanno “irrigidito” una religione in passato molto più libera. Gli ezidi ne contano 74. Settantaquattro ordini di massacro contro la loro comunità, con l’impero ottomano a occupare la prima fila nella lista degli aguzzini.
OGGI LE DONNE EZIDE tentano una complessa rinascita dal dramma collettivo e individuale subito: la perdita di un figlio o una figlia nella lotta a Daesh, il rapimento e gli stupri, i figli nati dalle violenze. Per questo è stato fondato Taje, il Movimento di liberazione delle donne ezide. Naam è una dei membri. Ha 50 anni e ci racconta della fuga sul monte Shengal con i figli e i fratelli, degli otto giorni senza cibo né acqua, delle rapide incursioni nei villaggi per recuperare un po’ di farina con cui cuocere il pane su fuochi improvvisati.
Poi dà spazio alla giovane portavoce di Taje, Sabiha: «Qui curiamo le ferite delle donne. E lo facciamo partendo da quanto successo dopo l’attacco: le donne hanno preso le armi e hanno dimostrato di poter combattere, vincendo vecchi pregiudizi. Abbiamo combattuto anche a Raqqa, in Siria, e lì abbiamo trovato alcune delle nostre donne rapite. Oggi siamo presenti in tutta Shengal, nei quartieri e nei villaggi».
L’obiettivo è ridare alle donne la loro vita e la loro dignità. Riportarle in comunità, liberandole da intollerabili fantasmi e dalla vergogna di alcune famiglie che le rigettano o le nascondono, sperando che l’oblio camuffi la sofferenza.
E poi Taje le cerca: mancano ancora 1.117 donne, di alcune si sa che hanno partorito figli dei miliziani islamisti e la vergogna è tale da fargli preferire l’esilio. C’è anche chi torna con dei bambini che non vuole: se ne occupano orfanotrofi in Rojava, dice Taje. Altre ancora sono state assorbite dalla propaganda dei loro aguzzini.
«I PROBLEMI PSICOLOGICI da affrontare sono enormi – continua Sabiha – C’è bisogno di una terapia vera, noi non siamo in grado di fornirla. Lavoriamo sulla società, formiamo queste donne a un lavoro e in questo modo le reinseriamo».
Da Taje sono nati “sottogruppi”, comitati per formazione specifiche che hanno portato a risultati: alcune donne hanno aperto insieme attività commerciali, forni, cooperative agricole. Un lavoro condiviso con l’Assemblea delle donne ezide, nata in montagna: «Il primo frutto sbocciato sul monte Shengal – ci dice Suham Shengali – Alla base stava un’idea chiara: non avremmo più subito, avremmo costruito una donna forte che esiste e resiste. Per questo la priorità è stata l’autodifesa».
«La società non cambia da un giorno all’altro – continua Suham – Molti ezidi hanno fatto propria questa mentalità, altri no. Per cambiare serve un’ideologia, se non c’è la si crea. Noi abbiamo incontrato la teorizzazione di Ocalan. Le Ypg e le Ypj (le unità di difesa del Rojava, ndr) ci hanno liberato anche dentro, individualmente».
IL PERCORSO INIZIATO con le armi prosegue con la formazione politica e quella sociale, per sgretolare via l’idea che l’eguaglianza di genere sia un’utopia irrealizzabile. Nena News