Aggiornato il 16/12/20 at 10:12 pm
«Ogni volta che qualcuno bussa la nostra porta, io corro nella speranza che siano i miei famigliari». Parla Fatima, casalinga, ha perso tutta la famiglia ed è rimasta sola al mondo. Ci sono migliaia di casi come quello di Fatima nel Kurdistan dell’Iraq, persone che vivono con la speranza di riabbracciare i loro cari, che erano stati portati via dal regime sanguinario di Saddam Hussein, con una vasta operazione chiamata Al Anfal: Anfal era il nome di una serie di operazioni militari, otto in tutto, condotte in sei aree geografiche distinte fra l‘aprile ed il settembre 1988. Il comando delle operazioni era nelle mani dell’Ufficio per il Nord (cioè il Kurdistan) del Partito Baath, che aveva la sua base la città di Kirkuk e guidato da Ali Hassan al-Majid, il cugino di Saddam Hussein, conosciuto con il nome di ‘Ali il Chimico‘ per il suo uso di armi chimiche contro le città ed i villaggi curdi.
Il fine generico della campagna era quello di eliminare non solo la resistenza curda ma anche sterminarne con qualsiasi mezzo necessario la popolazione.
La pulizia etnica era tra i principali scopi dell’operazione. Inizialmente fu riservata a quegli uomini tra i 12 ed i 80 anni che venivano considerati sabotatori. Furono, in realtà, le esecuzioni di massa nei villaggi a dettare l’inizio di una tragica e tristissima campagna di genocidio che si materializzò nei dieci anni successivi.
Le operazioni militari dell’Anfal furono svolte da truppe regolari della Prima e della Quinta Armata, rinforzata da unità di polizia politica e altri battaglioni speciali. La Guardia Repubblicana prese parte alle operazioni nella prima parte della campagna. Ma fu quando Alì il Chimico arrivò a dirigerla che la campagna militare si trasformò in genocidio.
Secondo i racconti di qualche sopravvissuto e di un ufficiale iracheno (poi passato ai curdi) agli inviati di Human Rights Watch, Alì il Chimico raccontò di una riunione, nella primavera del 1987, a cui erano presenti: i governatori arabi di Erbil, Kirkuk, Dohuk e Suleimaniyeh, (le quattro principali città curde del kurdistan dell’Iraq), comandanti della Prima e della Quinta Armata e le figure più importanti del partito Baath.
In quell’occasione Alì il Chimico ordinò che «nessuna casa rimanga in piedi nei villaggi curdi della provincia di Erbil». In un successivo incontro, nella stessa Erbil, Alì fu sentito minacciare la corte marziale per chi avesse trasgredito ai suoi ordini.
Lo stesso ufficiale racconta: «Presi due carri militari pieni di esplosivo da un deposito a Erbil. Ho requisito 200 bulldozer ai civili di Erbil e abbiamo cominciato a distruggere i villaggi fatti con il fango con i bulldozer e a far saltare con la dinamite le strutture in cemento. Le truppe entravano all’alba; i pozzi venivano coperti e l’elettricità tagliata. Dopo che il lavoro ingegneristico era terminato, Alì controllava con l’elicottero. Se qualche tipo di struttura era rimasta in piedi, al comandante di quella sezione veniva ordinato di tornare a finire il lavoro».
In caso di resistenza attiva, l’Esercito avrebbe dovuto aprire il fuoco; se la resistenza fosse continuata, l’intero villaggio sarebbe stato messo a ferro e a fuoco e la popolazione uccisa. L’evacuazione dei villaggi comportava l’esecuzione immediata per chi si fosse rifiutato di andarsene.
Per chi accettava di partire, la destinazione erano spesso le riserve nel sud del Paese dove i curdi erano costretti a vivere da prigionieri. Chi partiva veniva spesso separato dalle proprie famiglie, uomini da un lato, donne e bambini dall’altro.
Durante l’operazione Anfal, sono stati distrutti 4000 villaggi e a tutt’oggi mancano all’appello 182.000 persone (donne, bambini, anziani, malati, e perfino persone disabili).
Per la prima volta, quei 10 sopravvissuti all’operazione Al Anfal stanno affrontando una realtà terribile, quello di essere sicuri che i loro figli, fratelli o sorelle sono stati oggetto di una campagna di sterminio di massa, che assomiglia nella sua brutalità al massacro nazista.
Non una singola persona che era scomparsa durante la campagna militare Anfal del 1988 è ritornata viva. La verità è nascosta nelle sabbie nei deserti dell’Iraq. Finora sono state trovate molte fosse comuni, non ultima quella trovata al confine con l’Arabia Saudita che conteneva 2.700 corpi, tutti vestiti in abiti tradizionali curdi.
Human Rights Watch, nel suo rapporto annuale, ha definito la campagna di Anfal un vero è proprio genocidio contro il popolo curdo a differenza della pulizia etnica praticata dai serbi nei confronti dei bosniaci o il massacro tribale in Rwanda. Sottolineando che lo sterminio Al Anfal ha ricevuto relativamente poca attenzione all’estero in particolare in Occidente che allora sosteneva il regime di Saddam per contrastare l’espansionismo della rivoluzione iraniana allora.