MISSILI S-400 : CHE USO INTENDE FARNE LA TURCHIA?

Aggiornato il 03/11/20 at 09:00 pm

di Gianni Sartori —  A voler trovare sempre e comunque un piano preordinato, collocare ogni singolo evento all’interno di un progetto coerente si rischia – talvolta – di affondare nel complottismo.

Resta comunque il dubbio. Nel caso della Turchia alcune recenti iniziative potrebbero costituire la prova provata che Ankara ormai si muove (o almeno si rappresenta) come una superpotenza in grado di trattare da pari a pari con i due colossi (USA e Russia) oltre che con le altre entità rilevanti (Iran, Arabia Saudita etc.). Sarebbe quindi fuori luogo cercare di ridimensionarla specificando  “potenza a livello regionale”, visto che qui si  parla sia di Medio oriente  che di  Mediterraneo e Caucaso. Un rilancio – la prosecuzione – dell’impero ottomano con altri mezzi?

Potrebbe anche essere. Ma procediamo con ordine.

Risaliva ai primi di ottobre il gentile preavviso (per garantire la sicurezza dei voli nella zona) del lancio di un missile (senza specificarne la gittata) nell’area del Mar Nero. Più precisamente in prossimità di Sinop da dove il 16 ottobre veniva girato un video rivelatore (con l’evidente colonna di fumo prodotta dall’esplosione dell’ordigno).

Gli esperti che lo hanno analizzato ritengono di avervi identificato un missile S-400 di tipo 40N6E (con una gittata presunta di circa 400 chilometri).

E allora? Quale sarebbe il problema?

Il problema consiste nel fatto che tali missili sono una componente del sistema di difesa venduto alla Turchia da Mosca. Più che una ostentazione di forza – o di indipendenza dall’Occidente – il gesto di Ankara assumeva quasi l’aspetto di uno sgarro. Soprattutto nei confronti di Washington, in lampante contraddizione con il ruolo della Turchia. Per il momento ancora  alleata degli USA e membro della Nato.

Ankara aveva operato il test missilistico incurante della minaccia di ulteriori sanzioni. Formulata esplicitamente da Mike Pompeo quando l’anno scorso aveva definito “semplicemente inaccettabile” la sola ipotesi di una attivazione del sistema degli S-400.

Sanzioni che tuttavia – va precisato – Trump non sembrava molto propenso a imporre.

Non mancavano i precedenti. Ancora l’anno scorso in una base nei pressi di Ankara (dove si trovano alcune batterie di S-400) venivano messi in attività aerei da combattimento F-16 e F-4. Allo scopo – si presume – di testare altre componenti (probabilmente i radar).

Un passetto alla volta, la Turchia sembrerebbe intenzionata a integrare – anche ufficialmente – il sistema di difesa S-400 nella sua struttura di difesa contraerea e di combattimento.

Quanto a dove tali batterie di missili verrebbero collocate definitivamente, il mistero è ancora fitto.

Almeno una dovrebbe rimanere nei pressi di Ankara. Le altre a sorvegliare mar Egeo e Mediterraneo orientale. Magari –  visto anche l’esito delle recenti elezioni – nella repubblica di Cipro Nord (Kuzey Kibris Turk Cumhuriyeti) dove Erdogn non esclude la realizzazione di una “base-mista” (Turchia, Russia, Cina) da contrapporre a quella proposta da Macron nella zona greco-cipriota.

Oppure – probabile – alle frontiere con la Siria e con l’Armenia.

Una – se pur moderata – cautela mostrata da Erdogan nel procedere successivamente al test potrebbe dipendere dall’attesa per i risultati delle elezioni negli USA.

In ogni caso l’esercitazione del 16 ottobre era stata rivendicata pubblicamente dai dirigenti di AKP (il partito di Erdogan).

Bulent Turan in particolare si era complimentato per l’avvenuto test  cogliendo l’occasione per dichiarare che “il problema principale di questo nostro bellissimo paese sono quei miserabili che si fan passare per intellettuali, ma non sono in grado di riconciliarsi con i valori della nazione e non hanno fiducia nello stato; così come gli insignificanti esponenti politici dell’opposizione incapaci di comprendere quali siano gli interessi nazionali”. Affermazioni piuttosto nebulose, ma che potrebbero risultare chiare e precise per chi, in Turchia, deve sentirsi nella condizione di “uomo avvisato”.

Pur non dando ufficialmente conferma dell’avvenuto test missilistico del 16 ottobre, il Dipartimento di Stato statunitense aveva ribadito la possibilità di “gravi conseguenze”qualora il sistema fosse divenuto operativo a tutti gli effetti.

Se fin dall’inizio il Pentagono si era dichiarato totalmente contrario all’acquisto da parte di Ankara del sistema S-400, l’esponente repubblicano Jim Risch si spingeva oltre affermando fuori dai denti che “la Turchia ha superato il limite” e invitando l’amministrazione statunitense a dare un “forte segnale” per indurre Ankara a liberarsi del recente acquisto.

Minacce che – come è noto – erano destinate a rimanere  lettera morte.

Esiste anche un’altra ipotesi. Ossia che Erdogan abbia semplicemente alzato la posta per ottenere da Washington (anche in caso di vittoria da parte di Joe Biden) concessioni di altro genere. Per esempio la sostanziale, accettazione di ulteriori interventi nel nord-est della Siria contro i curdi o contro l’Armenia. In questo caso, agitare la minaccia dell’impiego operativo dei missili S-400 funzionerebbe come merce di scambio (o, se preferite, ricatto).

 

Da parte di quella che ormai, almeno nella testa di Erdogan, si percepisce e rappresenta come una potenza completamente autoreferenziale e indipendente.

Da non sottovalutare inoltre l’effetto galvanizzante riversato sugli strati sociali turchi (soprattutto il ceto medio, ma non solo) che pur appoggiando Erdogan si sentono colpiti, travolti dalla crisi economica.

E che quindi necessitano di compensazioni (almeno a livello immaginario, di falsa coscienza).

Riprendendo il discorso iniziale (quel voler trovare qualche motivo recondito in ogni gesto compiuto da Erdogan), per alcuni osservatori non sarebbe casuale nemmeno un’altra coincidenza.

Ossia che l’esperimento missilistico sia avvenuto quasi in contemporanea con l’incontro (e la firma di accordi anche di cooperazione militare) tra Erdogan e Volodymyr Zelensky, il suo omologo ucraino. Anche in questo caso potrebbe essersi trattato di una ostentazione di indipendenza, ma stavolta da Mosca.

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