Aggiornato il 14/06/19 at 09:49 pm
di Fernando D’Aniello Un’immagine più di tante parole: mentre la polizia blocca il traffico e bisogna percorrere a piedi gli ultimi 500 metri per arrivare al palazzo dove s’insedierà Nechirvan Barzani, la strada è piena di bandiere. Curde, certamente, ma accanto ad esse sventolano anche quelle irachene. In fondo è il giorno in cui entra in carica il presidente della regione autonoma curda della Repubblica irachena: la simbologia del 10 giugno 2019 rivela pienamente il ritorno della regione autonoma nella dinamica costituzionale dello Stato federale.
L’indipendenza nazionale non è più all’ordine del giorno, anzi è letteralmente scomparsa dall’agenda curda, anche per i Barzani, che con il Partito democratico del Kurdistan (PDK) avevano provato, nel settembre 2017 con il referendum, a forzare la mano, fiduciosi di un esito diverso e anche di una maggiore disponibilità della comunità internazionale. Gran parte del popolo li aveva seguiti e allora per le strade sventolavano solo bandiere curde fino alla scontata vittoria dei sì per l’indipendenza piena e formale da Baghdad. Invece, sono stati travolti dalla reazione irachena, perdendo anche il controllo di Kirkuk e di altre zone curde, oggi occupate dall’esercito iracheno e dalle milizie scite.
Oggi, accantonata la questione nazionale, bisogna trattare, evitare nuovi colpi di mano; sia con Baghdad sia con le altre forze politiche curde la forma è sostanza: tanti altri dettagli della giornata del giuramento tradiscono questa nuova impostazione della classe dirigente curda. Nechirvan Barzani vuole iniziare il suo mandato provando a costruire un’immagine di sé come politico e negoziatore. Giurerà in abiti civili, come è apparso negli ultimi anni quando era primo ministro. Il copricapo curdo sempre indossato dallo zio nelle occasioni ufficiali è un ricordo, del resto il tempo dei leader peshmerga cresciuti sui campi di battaglia è sempre più lontano: Nechirvan sa di aver bisogno di una legittimazione di tipo nuovo (e, forse, vuole anche iniziare a prendere le distanze dall’ingombrante parente).
E allora, dopo le elezioni di settembre otto mesi di negoziazioni tra i partiti curdi. E alla fine, un accordo, che coinvolge non solo il PDK e l’UPK (Unione Patriottica del Kurdistan), i due partiti storici, ma anche Gorran, che negli anni passati era riuscito a eleggere lo speaker del Parlamento, al quale Masoud Barzani aveva persino vietato di rientrare ad Arbil. Ecco perché l’accordo lascia a molti cittadini la sensazione che, in fondo, in Kurdistan non cambi mai niente; tuttavia, è forse il primo, indispensabile passo per provare a cambiare davvero le cose, democraticamente, evitando velleità che potrebbero scaraventare la regione in una nuova guerra civile, peggiore a quella di metà anni Novanta.
Del resto le elezioni di settembre per il Parlamento, per quanto siano state segnate anche da brogli, hanno visto confermato il PDK come primo partito, addirittura in crescita. Segno di un consenso, nonostante la crisi e il fallimento del referendum, ancora forte. L’accordo serve a evitare di prolungare la paralisi istituzionale nella quale la regione da troppi anni si ritrova. Ecco perché un’intesa andava trovata e una nuova diarchia tra PDK e UPK non avrebbe certamente potuto superare lo stallo degli ultimi anni. E allora i politici curdi hanno trattato: il primo scontro lo si è avuto proprio sulla figura del presidente della regione. Secondo Gorran dovrebbe essere una figura puramente di rappresentanza e il potere vero dovrebbe appartenere al Parlamento: è una storica rivendicazione del partito, che crede necessario dare forza alla Camera di rappresentanza popolare per superare il potere non tanto dei partiti quanto delle storiche famiglie.
L’accordo trovato su questo punto è fin troppo ‘bizantino’: Nechirvan sarà eletto dal Parlamento, ma conserverà i poteri del predecessore; Gorran intende, però, lavorare alla nuova Costituzione della regione, che possa cambiare l’attuale rapporto tra presidenza e Camera di rappresentanza, del tutto sbilanciato a favore della prima. Così il cerimoniale curdo s’inventa una giornata non al Parlamento, edificio troppo piccolo e inidoneo a ospitare grandi eventi (già questo basta a sottolineare la rilevanza che ha avuto sino ad oggi nella politica curda), ma lascia proprio alla nuova speaker, Vala Farid, e ai capi dei gruppi parlamentari il compito di accogliere i tanti ospiti. Di fatto, si tratta di una sessione del Parlamento che, straordinariamente, si riunisce in un altro luogo. Un piccolo compromesso che Barzani ha accettato e che ha convinto anche Gorran.
Il cerimoniale funziona anche per seppellire la rivalità con Baghdad: così se fino al 2017 Barzani aveva tentato la carta dell’indipendenza, il secondo a parlare è proprio Barham Salih, presidente dell’Iraq, curdo (per consuetudine nella Repubblica federale irachena il capo di Stato è un curdo, il primo ministro uno sciita), che proviene dalle file dell’UPK e che il PDK non ha sostenuto nel corso della sua elezione nel Parlamento di Baghdad. La guerra contro lo Stato islamico fa da collante, tutti gli iracheni piangono i propri caduti e pazienza se tra Curdi e iracheni lo scontro è stato anche violento quando questi ultimi, dopo il referendum, hanno rioccupato le aree contese, tra cui Kirkuk. Oggi occorre celebrare la rinnovata unità e l’inizio di una fase nuova: Nechirvan promette, nel suo discorso finale, un piano comune per appianare tutte le difficoltà tra Arbil e Baghdad. Parole simili sono arrivate dall’influente religioso sciita Ammar al-Hakim, che ha preso parte alla cerimonia, come pure, molto importante, anche Falih al-Fayyad – consigliere per la sicurezza nazionale iracheno e di fatto tra i capi delle Milizie di mobilitazione popolare sciite – ha rivolto al neopresidente un augurio di buon lavoro e di collaborazione per il bene di tutto il popolo iracheno.
Se l’accordo durerà, se sarà effettivamente capace di sbloccare una situazione incancrenita da anni, lo si verificherà solo nei prossimi mesi. Il primo ostacolo sarà la formazione del governo: Nechirvan affiderà l’incarico in tempi brevissimi ad un altro Barzani, Masrour, il figlio di Masoud. Nelle prossime settimane, limati gli ultimi problemi, il governo dovrebbe insediarsi.
Prima questione da affrontare è proprio il rapporto con Baghdad; lo scorso anno, complice una mediazione di Mosca, divenuta il primo investitore estero nella regione, i politici dei due Paesi sono tornati a parlarsi. Nechirvan sa di dover disinnescare la mina Kirkuk: tornare alla situazione precedente all’ottobre 2017 è praticamente impossibile, ma occorre evitare nuove tensioni con il governo federale. Un accordo duraturo sulla gestione del greggio sembra essere possibile, del resto Baghdad dallo scorso anno è tornata a pagare gli stipendi dei dipendenti curdi: la regione dovrebbe riconoscere i proventi derivanti dai campi esistenti allo Stato federale (e impegnarsi dunque a versare le cifre corrispondenti a Baghdad del greggio venduto), mentre più complessa potrebbe essere la questione dei giacimenti futuri, che Arbil considera di esclusiva competenza regionale. A questo proposito Gorran ha chiesto che i negoziati con Baghdad siano condotti da una commissione parlamentare e governativa.
Resta, poi, il problema dell’esercito, la guida dei Peshmerga, che dovrebbe essere unificata in una vera forza di sicurezza nazionale (Nechirvan ha promesso di integrarla in un sistema di difesa nazionale, parte, cioè, dell’esercito iracheno), in questa direzione spingono anche Stati Uniti e Regno Unito: ma è forse la più difficile delle riforme da realizzare, perché tocca il potere vero dei capi di partito che si sono divisi la regione sino ad oggi.
Il 10 giugno è stato il giorno dell’unità della politica curda e dell’Iraq federale. Difficile dire, però, se e quanto possa durare.
Fonte: http://www.treccani.it
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