Aggiornato il 03/05/18 at 04:39 pm
di Francesca Sironi da Diyarbakir-Ahmed
Il trionfo dell’Akp del premier lascia poche speranze alla minoranza che abita il Kurdistan e che alle precedenti votazioni aveva ottenuto un ottimo risultato, oggi pesantemente ridimensionato. “Vogliamo solo la pace, ma…… che sia vera pace per tutti” «Non c’è futuro per la Turchia dopo questo risultato», ripetono nella notte di Diyarbakir dalla sede dell’Hdp, il partito-promessa di Selahattin Demirtaş uscito stremato dal voto del primo novembre: «Ma smettere di sperare sarebbe inutile. Perché avremmo partecipato alle elezioni se non credessimo nel dialogo?». Cercano di dare coraggio, rassicurazioni, un po’ di luce. Ma fuori è buio pesto, e proprio qui, davanti alla sede, scoppiano scontri fra polizia e manifestanti alla fine dei conteggi. Una fiammata breve ma violenta: pietre, fuoco, lacrimogeni. E attesa. L’esito delle elezioni politiche, visto dalla capitale del Kurdistan turco, è una coperta di delusione e paura. Visto da Ankara, è un successo chiaro e stabile affidato nelle mani dell’Akp, il partito del presidente Tayyip Erdoğan, che voleva il governo di un solo partito e l’ha ottenuto. Con il 49,4 per cento di voti (9 punti in più rispetto a giugno) e 316 deputati, Ahmet Davutoğlu potrà timonare insieme al suo superiore senza bisogno di imbarazzanti coalizioni; partnership d’altronde subito rifiutate all’uscita dei risultati del 7 giugno, quando l’Akp scese sotto il 41 per cento. E quando per la prima volta nella storia un partito filocurdo, l’Hdp, riuscì a ad entrare in aula col 13 per cento di sì. Scontri tra polizia e manifestanti curdi sono in corso a Diyarbakir, principale città curda del sud-est della Turchia, dopo i primi risultati del voto di oggi che indicano il trionfo di Erdogan. Ci sono stati incendi e barricate nelle strade, dove la polizia avrebbe sparato gas lacrimogeni. Scontri anche a Nusaybin, sempre nel sud del paese, dove un negozio è stato dato alle fiamme e 20 persone sono rimaste ferite Il caos chiama altro caos. Negli ultimi tre mesi la pressione sulle città renitenti ad Ankara era scalata al terrore. A Singar i ragazzi raccontano di perquisizioni quotidiane, scontri a colpi di mitra, esecuzioni sommarie, come nel caso del ventenne ucciso e trascinato da una camionetta: una scena rilanciata in tutto il mondo grazie al filmato di un telefonino. A Kulp, trentaseimila persone spazzate dal vento a 125 chilometri da Ahmed, per “ragioni di sicurezza” lo Stato ha impedito di usare i pascoli e bruciato così gli unici proventi dell’economia locale. Nel Sur, oltre alle case sono state distrutte dalle raffiche anche le pareti della mosche di Fatih Pasah, costruita nel 1500. Demirtas ha denunciato ieri che 500 membri del partito, sindaci, politici, e militanti, sono stati arrestati nell’arco di sei mesi. Questi prodromi si sono fatti corsa all’aprirsi delle urne. A poche ore dai primi risultati, una bomba è scoppiata a Nusaybim, nel distretto di Merdin. Lacrimogeni e spari sono proseguiti per due notti nel distretto di Cizre. E il nervosismo è ovunque nella città già chiusa di Ahmed, che da giorni abbassava le saracinesche in anticipo, alle sette di sera, per immergersi nell’attesa del voto, con la cicatrice ancora scoperta del coprifuoco. «Se non si aprirà un nuovo dialogo la Turchia diventerà uno stato più conservatore, più musulmano, più radicale contro le libertà e le donne», dice infervorato un militante dell’Hdp: «Ma dobbiamo evitare che questo si trasformi in una nuova guerra. Cosa ce ne facciamo dei morti, di altri morti, ancora, dopo migliaia di vittime? L’unica via è il dialogo». Ma l’aria di guerra c’è già. Per respirarla basta passeggiare tra le barricate appena smontate dei quartieri che si sono autodifesi durante i coprifuoco o avventurarsi in villaggi come Aygun, 60 chilometri di terra brulla nel Kurdistan del Sud: una foresta antica incenerita, poche capre, la sola fonte di reddito lo Stato. Maestri, dottori e “civil guards”, uomini semplici che si occupano di mantenere l’ordine. Nella scuola di Aygun, unico seggio elettorale per qualche migliaio di abitanti sparpagliati, stanno seduti lungo il muro. In undici. Abiti civili. E fucile a tracolla. Di fianco a loro, all’ingresso, apre la porta un militare in divisa. Se nei paesi più grandi è un vai e vieni di donne col velo o con i capelli raccolti in una coda ma con i tacchi alti, qui di ragazze o madri non ce n’è nemmeno una. Solo un centinaio di maschi, di cui diversi attaccati al Kalashnikov. «Dobbiamo difenderci», ci ripete varie volte un uomo quando insistiamo sul perché di tutte quelle armi a due passi dalle urne: «Non c’è problema per noi: la Turchia è una grande democrazia».Fonte:Espresso
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