Aggiornato il 03/05/18 at 04:39 pm
di Dario Rivolta *
Cose strane accadono nelle ultime settimane nel Kurdistan iracheno. Il presidente della Regione autonoma Massoud Barzani, figlio dell’eroe nazionale curdo Mustafa, è scaduto dal mandato alla metà di agosto ma, considerata la guerra in…… corso contro l’Isis e il contenzioso sempre aperto con Baghdad, continua a esercitare il suo ruolo con pieni poteri e ancora non vengono annunciate nuove elezioni. Al contrario, il presidente del Parlamento, recatosi a Suleimanya, è stato ufficialmente diffidato dal Governo dal rientrare nella capitale Erbil e dall’esercitare la sua funzione. Non è tutto: poche settimane fa, gruppi di scalmanati presumibilmente militanti del partito Goran (Cambio), che fa parte della maggioranza con tre ministri nel Governo, hanno assalito alcune sedi di un altro partito di maggioranza, il Partito Democratico del Kurdistan (PDK), largamente maggioritario nella regione, e hanno ucciso cinque uomini ferendone altri cinquanta. Come conseguenza, il primo ministro ha destituito i tre ministri. Infine, mentre gli stipendi dei dipendenti pubblici non sono pagati da luglio, la popolazione autoctona di circa cinque milioni di persone ha dovuto accogliere un altro milione e seicentomila rifugiati, tra curdi scappati dalla Siria e arabi e cristiani fuggiti dalle altre regioni irachene. Si possono immaginare i disagi che si sono creati e le spese extra a carico dell’amministrazione. La Regione era diventata formalmente autonoma dopo il referendum popolare iracheno che aveva approvato la Costituzione e, sotto la guida di Massoud Barzani e del cugino Nechirvan, in soli dodici anni si era trasformata da Paese devastato dalle incursioni sanguinarie delle truppe di Saddam in un paradiso del Medio Oriente. I villaggi rasi al suolo erano stati ricostruiti, nuove università, ospedali e scuole erano nati, assieme a una miriade di nuove abitazioni e centri commerciali finanziati dall’arrivo di capitali stranieri e curdi di ritorno, pronti ad approfittare di quello che sembrava un nuovo bengodi. Fino a poco fa tutto questo ben di dio è stato reso possibile dalla stabilità politica dovuta a un sistema democratico così partecipato da far impallidire quello traballante di Baghdad. Barzani era stato eletto alla presidenza da un voto popolare con più del 70% dei consensi e il cugino Nechirvan, dopo una breve parentesi seguita al suo primo mandato, era stato richiamato al posto di primo ministro a furor di popolo. A ben vedere, l’incarico di Massoud Barzani era già scaduto nel 2013 ma, molti governi stranieri e i capi di tutti i partiti curdi, gli chiesero allora di prorogare la sua permanenza in carica per altri due anni, viste le difficoltà create dalla guerra già iniziata. Nel frattempo fu deciso di comune accordo di procedere a una possibile modifica della Costituzione locale, chiarendo se i poteri della presidenza dovessero restare gli stessi (più o meno simili a quelli del presidente francese) o se la carica dovesse diventare puramente rappresentativa come quella dei presidenti italiano o austriaco. Altresì, si sarebbe dovuto decidere se mantenere la sua elezione popolare o farla diventare parlamentare. Sta di fatto che, in questi due anni, nessun accordo è stato raggiunto tra i partiti e, se Barzani lasciasse ora l’incarico in assenza di nuove elezioni, si creerebbe, considerata la situazione, un pericoloso vuoto di potere. E’ a tutti evidente che, in caso di un’elezione popolare e qualunque siano i poteri del presidente, il popolo curdo riconfermerebbe ancora Massoud, dandogli così una legittimazione comunque indipendente e (in pratica) superiore a quella del Parlamento. Il problema attuale del Kurdistan sta, probabilmente, proprio nella sua stabilità e nei successi ottenuti, oltre che nella forza dimostrata dai suoi Peshmerga nel saper resistere, meglio di qualunque altra forza in campo, agli attacchi dei terroristi jihadisti. Le vittorie ottenute sui campi di battaglia, insieme al diminuire del potere centrale iracheno soffocato dalla corruzione e dalle divisioni settarie, hanno spaventato sia il governo di Baghdad sia i due paesi confinanti, l’Iran e la Turchia. Questi ultimi temono che, una volta sconfitto l’Isis, un Kurdistan stabile e con un governo forte possa automaticamente aspirare a diventare uno Stato indipendente. Anche quando ciò non dovesse rientrare nelle intenzioni del Governo di Erbil, la sua compattezza e la ricchezza della Regione diventerebbero un naturale punto di riferimento e di attrazione per i quasi venti milioni di curdi residenti in Turchia e i più di dieci in Iran. Si aggiungano a ciò i successi dei curdi di Siria che, con l’aiuto dei fratelli iracheni, puntano anch’essi a costituirsi come regione autonoma. Si è reso quindi indispensabile sia per Teheran sia per Ankara cercare di ridimensionare quel governo tanto forte ed efficiente, ma occorreva farlo senza mostrarsi direttamente. E’ in questo quadro che, approfittando della crisi economica interna causata e dal basso prezzo di gas e petrolio e dai mancati trasferimenti del denaro dovuto da Baghdad alla Regione Autonoma, qualcuno ha soffiato sul naturale malcontento popolare fomentando i disordini che si sono poi verificati. Senza escludere altre ipotesi, il fatto che il capo di Goran Nashirwan Mustafa (sospettato di essere finanziato da Teheran) sia partito senza spiegazioni per un viaggio in Germania proprio due giorni prima che cominciassero i disordini lascia pensare che quanto successo non fosse del tutto inaspettato. Comunque, non è una pura coincidenza che il maggior responsabile del mancato accordo sulla nuova Costituzione sia esattamente quello stesso partito. E’ per queste ragioni che il primo ministro ha allontanato dal governo i suoi tre rappresentanti e impedito al presidente del Parlamento di ritornare nella capitale. D’altra parte, una loro presenza a Erbil avrebbe potuto causare nuovi disordini, questa volta da parte dei militanti del PDK, come ritorsione a quanto era capitato ai suoi militanti altrove. Un discorso a parte merita la Turchia per quanto riguarda i suoi rapporti con Erbil. Fino ad ora la collaborazione tra le due parti era stata opportuna e fruttuosa per entrambi, tanto da far diventare le aziende turche le più presenti in Kurdistan in tutti i settori (si stima che il Kurdistan abbia rappresentato in questi anni il 5% del Pil turco). L’approssimarsi delle elezioni volute da Erdogan e il suo bisogno di recuperare le simpatie dei nazionalisti l’hanno però spinto a rompere la tregua con i guerriglieri curdi di Turchia e, recentemente, a bombardare anche i combattenti curdi in Siria, ivi sostenuti dai Peshmerga. La conseguenza è stata un raffreddamento dei rapporti bilaterali e il sospetto che, anche ad Ankara, un indebolimento del governo di Erbil non costituisca per nulla un dispiacere. Si ripete, dunque, la stessa dolorosa e vecchia storia del martoriato popolo curdo, vittima di vicini a est come a ovest come a sud, che diventa oggetto di battaglie di forze a lui esterne che, oltre a negargli una peculiare identità, fan di tutto per approfittare delle divisioni interne addirittura aizzandole. Probabilmente questa volta non riusciranno fino in fondo nel loro intento, ma è certo che, dalla caduta di Saddam, questo periodo è, per i curdi iracheni, il più pericoloso della loro storia recente. * Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.
Fonte:notizie geopolitiche
Lascia un commento