Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm
di Andrea Milluzzi per Espresso combattenti che abbiamo trovato in una base nemica: ci sono turchi, arabi del Golfo, ceceni, nordafricani. Stiamo combattendo da soli contro il mondo intero». Redur Xelill è il portavoce dello Ypg, le brigate curde …..di difesa popolare in guerra contro l’Isis nel Nord-Est della Siria. La valle della Jazeera è la regione più fertile di tutto il Paese e si sforza di dimenticare la devastazione che la circonda. Il verde dei campi si alterna a quello della vegetazione e alcune trivelle hanno timidamente ripreso a pompare petrolio.
La Jazeera, la regione di Afrin vicino ad Aleppo e la città di Kobane, al confine con la Turchia, sono le zone siriane a maggioranza curda. Insieme formano il Rojava, il cantone occidentale di quel Kurdistan disegnato da decenni nei desideri dei curdi. Nel gennaio scorso l’autonominato governo curdo (che include arabi, siriaci, yazidi e turkmeni) ha dichiarato l’autonomia del Rojava dal regime di Basshar al-Asad e ha scelto la città di Amuda come sede. Xelill ha qui il suo ufficio. L’elettricità sparisce ogni due ore, innumerevoli posti di blocco bloccano il traffico su strade che hanno bisogno di una robusta messa a posto, i mercati e i negozi devono fare i conti con la penuria di merci, ma l’entusiasmo in Rojava è alle stelle.
«Sconfiggeremo l’Isis perché abbiamo motivazioni più forti», assicura Xelill. Il futuro del Rojava passa da Kobane, che da più di tre mesi è sotto l’assedio delle truppe di Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato califfo dello Stato Islamico. Sul tavolo di Xelill ci sono i passaporti di uomini dai 18 anni ai 50 anni che hanno aderito al jihad a Kobane. Sul registro sono scritti i loro nomi, il lavoro, quante persone hanno in famiglia e quanti soldi hanno versato alla causa. «Noi curdi non facciamo chiamate alle armi per gli stranieri. Chiediamo ai governi di aiutarci, mandandoci munizioni e armamenti pesanti. Se poi qualcuno vuole unirsi a noi lo accogliamo volentieri», sorride.
L’avanzata dell’Isis ha acceso i riflettori occidentali sulla deriva di Siria e Iraq, e Kobane ha assunto il ruolo simbolico di “Stalingrado della democrazia”. Da Europa e Stati Uniti sono arrivati centinaia di aiuti per i profughi ammassati a Suruç, lato turco del confine, ma c’è anche chi quel confine lo ha superato per combattere a Kobane. Non è un fenomeno di massa, ma già si accennano paragoni con le Brigate Internazionali che nel 1936 e 1937 si mobilitarono in aiuto della Repubblica spagnola attaccata da nazionalisti, militari e fascisti. Al tempo accorsero oltre 40.000 volontari di 52 Paesi. Fra loro c’erano lo scrittore inglese George Orwell, che fu ferito e ne scrisse in “Omaggio alla Catalogna”, Ernest Hemingway, che raccontò la guerra da giornalista e poi in “Per chi suona la campana”, e tra i leader politici italiani Pietro Nenni, socialista, e il comunista Palmiro Togliatti. Un soccorso esterno che ha fatto storia e che in sedicesimo si ripete contro il califfo.
«Possiamo contare con le mani quanti sono gli stranieri, meno di cento», dice Xelill dopo molti tentennamenti. «Hanno fra i 20 e i 30 anni, sono quasi tutti ex soldati europei ed americani». I numeri ancora non reggono il paragone con la guerra spagnola, le motivazioni sì. «Sono entrato insieme ai contrabbandieri. Eravamo venti persone, io ero l’unico europeo. Era pericoloso ma era anche l’unico modo per farlo». Rafael Rahl risponde su Facebook da Kobane, dove è arrivato il 3 dicembre. I suoi compagni curdi lo conoscono come Shoresh: «Sono nato e cresciuto in Svezia, ma la mia famiglia è originaria di Sulaymaniyah nel Kurdistan iracheno. Sono qui perché ho visto un video in rete in cui quelli dell’Isis uccidevano a freddo dei bambini. È la molla che mi ha spinto a partire».
Da qualche giorno la tivù svedese che sta raccontando la storia di Rafael ha svelato la verità ai suoi genitori: «Avevo detto loro che sarei andato sul confine fra Siria e Turchia per aiutare i profughi. Adesso che la bugia è saltata mi chiedono di tornare a casa. Sono comunque fieri di me». Come aveva anticipato Xelill, c’è un passato militare dietro ogni volontario europeo. Continua infatti Rafael: «A Stoccolma lavoro come guardia del corpo. Mi sono formato alla Apm (Accademia praetoriae mundi, scuola internazionale per guardie del corpo e autodifesa, ndr). A Kobane faccio il cecchino. All’inizio mi hanno lasciato in terza fila per prendere confidenza con il territorio, ma sono stato promosso velocemente sulla frontline. D’altronde sono bravo. Ho sparato ad una cinquantina di nemici, anche se non so se li ho uccisi tutti».
Rafael ora sta lasciando Kobane: «Spero di aver formato bene i nuovi arrivati. Gli ho insegnato come si spara e il kraw maga (tecnica di combattimento corpo a corpo dei reparti speciali statunitensi e israeliani, ndr). Quello che ho visto me lo porto con me, le centinaia di persone rimaste a Kobane perché non vogliono finire in mezzo a una strada, una città distrutta e i suoi sfollati che nonostante tutto vogliono tornare a viverci. Tutti i giorni mi chiedo come sarà la loro vita dopo che avremo vinto questa guerra. Adesso il mio compito sarà sensibilizzare l’Occidente sui suoi doveri verso Kobane. Abbiamo l’Onu, abbiamo la Nato. Nessuno che si sia sforzato di trovare una soluzione».
Rafael parla di una quarantina di volontari a Kobane da Gran Bretagna, America, Germania, Norvegia, Israele «e altri ne stanno arrivando. Veniamo qui a spese nostre perché Kobane è un simbolo. La nostra è una lotta contro i mostri dell’Isis che non rispettano l’umanità né la loro religione. Il Corano non insegna a violentare donne o uccidere bambini». A Kobane ci sono anche un soldato argentino, un iraniano che ha combattuto tutti gli otto anni della guerra fra Iran e Iraq, più alcuni volontari turchi. Non c’è traccia di Gill Rosenberg, la soldatessa canadese di origine israeliane che sembrava essere stata rapita dall’Isis il 30 novembre, salvo poi riapparire sui social network. Il Canada è uno dei Paesi colpiti dal “jihad globale” invocato da al-Baghdadi: il 20 ottobre, nei pressi di Montreal un 25enne sospettato di simpatie verso l’Isis si è scagliato contro due militari, uccidendone uno; due giorni dopo un altro algerino in odor di terrorismo ha assaltato il Parlamento e ammazzato il soldato di guardia. Cinque volontari canadesi hanno reagito arruolandosi in Rojava, anche se non sono ancora mai entrati a Kobane.
Lo Ypg è una macchina oliata che non vede di buon grado i personalismi. I vertici militari usano il contagocce nel rilasciare informazini sull’aiuto esterno per non sminuire l’impegno dei volontari locali. Avere un occidentale da offrire alle telecamere è comunque una buona arma di propaganda. Jordan Matson rientra in questa logica. Ventotto anni, ex alunno di una scuola militare del Wisconsin (ma mai in missione all’estero), cristiano convinto, Matson è arrivato in Rojava nel settembre scorso. Mentre si stava curando le ferite causate dall’esplosione di un mortaio, Matson ha deciso di “copiare” i metodi di reclutamento dell’Isis e creare una pagina su Facebook rivolta agli occidentali.
“The lions of Rojava” è diventata in poco tempo una pagina seguitissima che raccoglie lodi, incoraggiamenti e continue richieste di arruolamento. C’è chi si offre volontario dall’Italia, chi assicura di aver formato una milizia di venti persone dalle Filippine, chi, come Robert, 23 anni dall’Estonia o l’americano Matthews arruolato a metà dicembre, posta la sua foto sorridente accanto ai combattenti curdi. «Quando l’Isis ha conquistato Mosul e ha distrutto l’Iraq per cui tanti nostri veterani sono morti, ho pregato per un paio di mesi. Poi ho deciso di partire» ha raccontato Matson in un’intervista a Ronahi, il canale televisivo curdo che trasmette notiziari e immagini sullo Ypg.
Gli inglesi James Hughes da Reading, nel Berkshire, e Jamie Read da Lanarkshire, in Scozia hanno seguito le mosse di Matson. Entrambi campeggiano in pose alla Rambo sull’immagine di copertina di “The lions of Rojava” e la loro storia è arrivata in Inghilterra dove sono stati accusati di essere dei “mercenari”. Tornati a casa per Natale, Read e Hughes hanno dichiarato di non essere stati pagati da nessuno per andare in Siria.
Il problema è che espatriare per partecipare ad una guerra è un reato, sia che ci si arruoli fra le fila dell’Isis sia che si scelga lo Ypg. Lo Ypg, fra l’altro, è considerato l’emanazione siriana del Pkk, il movimento armato dei curdi turchi iscritto nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali. Il leader del Pkk, “Apo” Ocalan, è l’idolo e l’ideologo indiscusso anche dei curdi siriani. Al confine con l’Iraq, sulla sponda siriana del Tigri, c’è il suo nomignolo su una collinetta a dare il benvenuto in Rojava. La sua faccia accompagna i ritratti dei martiri, campeggia sulle pareti degli uffici pubblici e dei negozi, si vende ovunque come spilletta, portagioie o bandiera.
Qamishlo fa eccezione. La città più importante del Rojava è ancora in parte controllata al regime di Bachar al-Asad che si tiene stretto l’aeroporto e alcuni quartieri centrali. Su una strada si cammina sotto Ocalan, ma svoltato l’angolo ci imbattiamo sui ritratti giganti di Bashar e del padre Hafez. A Qamishlo vive da quattro mesi Brian Wilson, ex ufficiale dell’aeronautica statunitense ai tempi di Desert Storm. Wilson, divisa mimetica e kalashnikov d’ordinanza, è stato uno dei primi occidentali ad autoarruolarsi in Rojava «ma non ho ancora combattuto, Cerco di dare una mano come posso», racconta. Wilson, nome di battaglia Zagros, ha 43 anni, è divorziato e padre di due figli: «Quando sono arrivato i curdi mi hanno accolto subito bene. Mi sono sentito in famiglia». Anche se il fisico non è più quello di un soldato, Wilson non ha esitato a tornare in Medio Oriente più di dieci anni dopo aver partecipato alla caccia a Saddam Hussein: «Alcuni amici curdi mi hanno aiutato ad entrare. Sono qui soprattutto per far conoscere ai miei connazionali la realtà siriana».
Lo Ypg ha da poco contrattaccato a Serie Kanie, ultimo villaggio controllato ai confincon il cosiddetto Stato Islamico, nel tentativo di impegnare l’Isis su più fronti e riuscire ad aprire un corridoio per portare aiuti a Kobane, bypassando l’ostruzionismo della Turchia. L’apporto pratico di Wilson e gli altri non cambia il corso della guerra: «Abbiamo difficoltà con le lingue, io avevo proposto di creare una milizia di soldati che parlassero inglese ma lo Ypg ha detto che non serve».
La caserma dove vengono sistemati i nuovi arrivati è a Til Kocer, unica dogana fra Iraq e Siria controllata dallo Ypg. Sulle mura campeggiano ancora alcune scritte nere dell’Isis che da qui è stato cacciato un anno fa. La caserma è accanto al valico di confine, ma non è possibile entrare per incontrare i volontari occidentali. «Lo Ypg aspetta il momento giusto per mostrarli al mondo. Finché non lo decidono i vertici non sarà possibile incontrarli», spiega Omid, uno straniero che il corso della guerra lo sta cambiando davvero. Il suo vero nome è Johan Cosar ed è un cittadino svizzero di Locarno, nel cantone italiano. Johan è arrivato in Siria nell’estate 2012 e non se ne è più andato. La sua famiglia è siriaca, antichissima popolazione cristiana della Mesopotamia che parla ancora l’aramaico. Poche centinaia di migliaia di siriaci vivono ancora sulle terre di origine ai confini fra Siria, Turchia ed Iraq. Il grande esodo che nei secoli ha colpito le minoranze mediorientali ha portato molte famiglie in Svizzera e in Germania, dove la comunità siriaca si è ricostruita mantenendo i legami con le loro origini. «Mio padre Sait era il vicepresidente del Syriac Union Party (Sup), un partito da sempre all’opposizione di Asad. Era anche nel primo Consiglio Nazionale Siriano che si formò a Istanbul nel 2011. Quando la rivoluzione stava prendendo la brutta piega di adesso mio padre viaggiava spesso qui e mi invitava a seguirlo. Io però facevo tutt’altra vita, avevo un locale a Locarno e le mie origini mi interessavano ben poco».
Dopo mesi di rifiuti Johan ha deciso draggiungere il padre, entrando dal poroso confine nord-occidentale fra Siria e Turchia. È passato per Aleppo, Idlib, Homs e tutte le città dove gli scontri fra regime e ribelli stanno distruggendo la Siria. Quando è arrivato in Rojava, a Qamishlo, l’incontro con suo padre non ha potuto più esserci: «Il 12 agosto mio padre è atterrato all’aeroporto ed è stato arrestato dai poliziotti. È stato portato in prigione a Damasco per la sua attività politica e dopo qualche giorno i funzionari del regime ci hanno detto che era morto per un infarto. Ma nessuno ci ha mai restituito il corpo. Non ce lo hanno fatto nemmeno vedere. E il medico che ha firmato il certificato di morte ci ha detto di essere stato costretto a farlo, nonostante non abbia mai visto mio padre».
Johan ha deciso di rimanere in Rojava per cercare la verità e continuare l’opera del padre. «In Rojava tutti si stavano organizzando per la rivoluzione. Dopo decenni di dittatura i curdi avevano fiutato l’occasione di guadagnarsi i loro diritti e hanno combattuto sia contro il regime sia contro i ribelli. Ma se era un’occasione per loro, lo era anche per noi siriaci», spiega Johan. Oltre ad aver svolto il servizio militare in Svizzera, Johan è stato per cinque anni un ufficiale del contingente Onu in Kosovo. Suo padre Sait e gli altri leader della comunità avevano in mente di organizzare un esercito siriaco da affiancare allo Ypg. È nato così il Syriac Military Council di cui Johan è il comandante: «Abbiamo voluto creare una nostra formazione per sottolineare la nostra identità. Combattiamo militarmente e politicamente con i curdi per avere un’autonomia e per vedere scritto su carta il diritto dei siriaci ad essere riconosciuti». Da allora Johan ha addestrato circa 400 giovani soldati cristiani, combatte in prima linea e si rapporta con i vertici dello Ypg e degli alleati occidentali, americani in primis. La Svizzera e le notti nel suo club sono lontani anni luce: «Ho imparato anche l’arabo e mi sto cimentando con il curdo. So che quando
Fonte: Espresso.it
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