Aggiornato il 03/05/18 at 04:38 pm
A causa della pioggia i residenti delle tende A2.59, A2.60, A2.61 e A2.62 hanno occupato le tende vuote circostanti. Alcuni di loro, una madre e 4 bambini, sono rimasti fuori: la loro tenda era piena zeppa di acqua…… In quel momento di tende vuote vicine non ce n’erano e intanto continuava a piovere incessantemente. Allora le abbiamo fatte entrare nella nostra, dove di acqua ce n’era pochissima. Per fortuna mia madre e mio padre avevano passato il pomeriggio ad accumulare terra intorno alla tenda. Un’altra famiglia ha passato invece la notte in macchina. In realtà anche parte della mattina, finché la terra ha smesso di essere acqua per diventare fango – almeno percorribile.
Domenica 30 novembre ho parlato con tante persone, e tutti la pensano allo stesso modo. “Questi problemi non si risolveranno presto: le tende mancano tutte di una base concreta in cemento. E fino a quando non ci sarà avranno la funzione di vasche da bagno quando piove. L’alternativa è andarsene dal campo”.
Altre 25 tende in un’altra parte del settore dove abito sono state fortemente danneggiate. Ma le persone non sono potute andare da nessuna parte. Hanno passato la notte cercando di resistere – non so come – contro l’acqua. Nessuno oggi ha chiesto a queste persone come stanno e cosa sia possibile fare per loro. Né il dmc (camp management del campo) né alcuna altra organizzazione.
La pioggia in questione è avvenuta mercoledì 26 novembre. È il racconto di Khaled, operatore di Un ponte per… nel campo per sfollati iracheni di Shariya (circa 15 km da Dohuk), tradotto dall’arabo all’inglese da Sulayman, suo collega, e accompagnato dalle foto che suoi amici hanno condiviso su Facebook. Me le ha fatte avere Salam, che ugualmente lavora con noi nelle aree urbane del Governatorato. Dopo averle viste sono tornato a Shariya, e “dal vivo” ho constatato goccia dopo goccia quanto mi era stato riferito. Insieme abbiamo fatto un giro lungo del campo, partendo dai depositi di cibo, vestiti e altri beni di prima necessità che poco alla volta vengono distribuiti. Poco, alla volta. Come la terra che manca sotto la rete che delimita i settori del campo. Le persone la usano per ricoprire i bordi delle tende. Per fare massa, per contrastare la pioggia. L’immagine che sembra riassumere al meglio il quadro fangoso del campo è l’enorme tir del World food programme che ha portato scatoloni di cibo nel campo. Doveva scaricarli vicino alle tende-deposito ma è rimasto incagliato nel fango poco dopo l’ingresso. Somiglia a una nave che affonda, mentre tre macchine-scialuppe di salvataggio mettono “in salvo” il carico e lo trasportano dal tir alle tende.
Proseguiamo lungo i settori, le tende, la ghiaia e il fango. Le persone salutano, una bambina salta con la corda, alcune donne svuotano le tende dall’acqua, dei ragazzini ci lanciano pietroline e mi chiedono “What’s your name?”. Vogliono giocare, loro, mentre un signore ci mostra la sua nuova “casa”. È il caravan delle lavatrici, una lavanderia pubblica che non funziona a gettoni e che ha la porta aperta. Per fortuna, perché altrimenti la notte scorsa lui, la moglie, i suoi cinque figli, il fratello e i suoi genitori sarebbero rimasti in piedi per cercare di bagnarsi solo i piedi. Banale, troppo, chiedere se il danno sia stato riportato al camp manager. La risposta è furiosa, e a cosa serve riportarla?
Shariya non è stata l’unica pozzanghera ad ospitare migliaia e migliaia di famiglie. A Garmawa e Khanke la situazione è molto simile e l’unica, determinante differenza la fa chi ha costruito il campo. Perché significa individuare subito chi ha dato alle tende una base in cemento e chi invece ha forse pensato che la ghiaia svolgesse il suo ruolo rinfrescante come fa d’estate. Ma qui siamo in inverno, ormai abbastanza inoltrato. E durerà per almeno altri tre mesi.
Per questo le domande che ci si può porre sono abbastanza insolite. Ci si aspetterebbe una rabbia ricchissima, una rivolta di popolo, ma di quelle vere, di cui c’è da aver paura. E invece le parole forti sono sporadiche. Ci sono, non mancano affatto. Dispiacere e dispiacersi sono i verbi che descrivono forse al meglio quanto gli occhi vedono in un’istantanea. Per capire di più occorre fermarsi, ascoltare, parlare con chi questo dramma lo vive da mesi e sotto ogni punto di vista.
Khalid, per fare un esempio immediato, è arrivato in Kurdistan dopo essere fuggito dal suo villaggio vicino Sinjar, Khatania. Prima però ha passato 7 giorni imprigionato nel palazzo dove abitava insieme ad altre famiglie. Daesh era arrivato e aveva conquistato tutto. Vorrei passare un’intera giornata con lui ad ascoltare quanto ha da raccontare. E moltiplicherei questa esperienza per oltre 700 mila, quanti sono gli iracheni rifugiati in Kurdistan solo qui a Dohuk.
Numeri, abbondanza, ricchezza. Di quella vera, non solo incommensurabile come la sensazione che ti lascia un sorriso e la dignità con cui le persone che incontri ti accolgono, raccontano, collaborano e ti offrono del tè. È grande, davvero, e non sai come e se ringraziare se ti viene offerto un letto, pasti di una bontà indescrivibile, e l’accompagnamento a luoghi sacri che mai avresti pensato di visitare.
La settimana scorsa Husam, Sudad, Gigi ed io siamo andati a Baadre, dove ci sono le rovine del castello dove risiedeva l’ultimo imperatore ezida*. Ora oltre alla popolazione locale ci sono più di 1.700 famiglie ezide e cristiane scappate da Sinjar e Bashiqa. Vivono in case incomplete, e della generosità della comunità. Per il resto aria, té, sole, pioggia e attesa. Hassan e Khasan, fratelli, sostengono la famiglia portando l’acqua, andando in giro cercando aiuto, provando ad avere i contatti giusti. Shammu invece ha come unico passatempo guardare i bambini che giocano fuori, quando c’è il sole, che gli riscalda un po’ la pelle. È invalido, gli manca una gamba da 15 anni, postumi di una storia che nel 90% dei casi è molto fresca nella memoria delle persone. Più di quella iniziata con la Guerra del Golfo del 1991 e delle più recenti invasioni statunitensi e di Daesh. È la guerra Iraq-Iran dell’ ’80-88. Terribile, violentissima, nei ricordi curdi delle persecuzioni di Saddam, e nelle reminiscenze irachene della prigionia iraniana. Che nel caso di Khasan è durata 7, lunghissimi anni, dopo i quali una vita normale non è stata più possibile. Oggi senza la famiglia del fratello lui non sarebbe nessuno, “perché sono schizofrenico, non so stare con una donna, e non posso farcela da solo”.
Dopo Baadre è arrivata la volta di Lalish, il tempio sacro per eccellenza degli Ezidi*. Qui le parole forse sono inutili. Difficile descrivere l’atmosfera incantata, tetra e al tempo stesso pacifica che abbiamo trovato sul far del tramonto, mentre entravamo e leggevamo i cartelli “No hunting”, divieto di caccia. La violenza nel credo ezida è vietata.
Percorrere a piedi la strada che porta al tempio, i volontari che puliscono il percorso e il tempio con scope di faggina – o rami secchi assemblati meticolosamente. Fedeli che distribuiscono cordicine bianche intrise di olio per sostenere la fiamma. “Fuoco, acqua e terra sono la base della vita, per noi ezidi è il principio da cui nasce il resto”, mi dice Hussam. Il tempio infatti ne è pieno di fuoco, acqua e terra, attorno ai quali si prega, si baciano le mura, ci si stringe le mani, si esprimono desideri facendo nodi alle lenzuola colorate che adornano le colonne, all’interno. Di questa ricchezza ne respiri il sapore, lo osservi in silenzio mentre ascolti racconti che non potrebbero finire mai.
Poco prima di arrivare a Lalish, proprio a 1 km di distanza, c’è un pozzo petrolifero. Ce lo indica la fiamma, che brucia 24 ore su 24 ore e non ha nulla a che vedere con la sacralità del tempio. Però racconta anch’essa qualcosa di importante. Ricorda che l’Iraq è un paese profondamente ricco. Di petrolio, di acqua, di cibo, di umana bellezza. Te ne parlano tutti, sfollati che vivono dei campi, gli abitanti di Dohuk, imprenditori, commercianti, religiosi, rifugiati siriani. Anche in questo caso la domanda è di una superficialità ed efficacia disarmante. “Perché allora tutto questo? Come fai a torcere un solo capello a questa ricchezza?”. La risposta è un’altra storia, e non ce n’è una sola, e nessuna è scontata. Nessuna è decisiva. Venerdì 28 novembre, c’è il sole, non piove. Per alcuni credenti sono sicuro che sia un segnale divino. Ma anche per altri credo non manchi l’occasione di sorridere, una volta di più, di fronte al fango che li circonda.
* Il termine Êzid significa “Dio”. È da lì che origina il nome della religione e della comunità. “Yazida” invece è stato introdotto da Saddam Hussein, nel senso che è stato scritto proprio sulla carta di identità di coloro che da allora sono stati conosciuti più comunemente come “yazidi”. Questo perché c’è stata la volontà politica di assegnare le loro origini al periodo di Umayyad Caliph Yazid, califfo ottomano della dinastia Ummayad che ha regnato dal 647 al 683. In pratica è significato mettere nero su bianco che gli Ezidi sono di origine musulmana, fatto assolutamente non vero. Questa storia me l’ha raccontata per la prima volta l’amico Latif al-Saadi prima di partire. La stessa storia me l’ha ricordata Hussam, prima di arrivare a Lalish.
Testo già pubblicato su Osservatorio Iraq – Medio Oriente e Nord Africa
Domenica 30 novembre ho parlato con tante persone, e tutti la pensano allo stesso modo. “Questi problemi non si risolveranno presto: le tende mancano tutte di una base concreta in cemento. E fino a quando non ci sarà avranno la funzione di vasche da bagno quando piove. L’alternativa è andarsene dal campo”.
Altre 25 tende in un’altra parte del settore dove abito sono state fortemente danneggiate. Ma le persone non sono potute andare da nessuna parte. Hanno passato la notte cercando di resistere – non so come – contro l’acqua. Nessuno oggi ha chiesto a queste persone come stanno e cosa sia possibile fare per loro. Né il dmc (camp management del campo) né alcuna altra organizzazione.
La pioggia in questione è avvenuta mercoledì 26 novembre. È il racconto di Khaled, operatore di Un ponte per… nel campo per sfollati iracheni di Shariya (circa 15 km da Dohuk), tradotto dall’arabo all’inglese da Sulayman, suo collega, e accompagnato dalle foto che suoi amici hanno condiviso su Facebook. Me le ha fatte avere Salam, che ugualmente lavora con noi nelle aree urbane del Governatorato. Dopo averle viste sono tornato a Shariya, e “dal vivo” ho constatato goccia dopo goccia quanto mi era stato riferito. Insieme abbiamo fatto un giro lungo del campo, partendo dai depositi di cibo, vestiti e altri beni di prima necessità che poco alla volta vengono distribuiti. Poco, alla volta. Come la terra che manca sotto la rete che delimita i settori del campo. Le persone la usano per ricoprire i bordi delle tende. Per fare massa, per contrastare la pioggia. L’immagine che sembra riassumere al meglio il quadro fangoso del campo è l’enorme tir del World food programme che ha portato scatoloni di cibo nel campo. Doveva scaricarli vicino alle tende-deposito ma è rimasto incagliato nel fango poco dopo l’ingresso. Somiglia a una nave che affonda, mentre tre macchine-scialuppe di salvataggio mettono “in salvo” il carico e lo trasportano dal tir alle tende.
Proseguiamo lungo i settori, le tende, la ghiaia e il fango. Le persone salutano, una bambina salta con la corda, alcune donne svuotano le tende dall’acqua, dei ragazzini ci lanciano pietroline e mi chiedono “What’s your name?”. Vogliono giocare, loro, mentre un signore ci mostra la sua nuova “casa”. È il caravan delle lavatrici, una lavanderia pubblica che non funziona a gettoni e che ha la porta aperta. Per fortuna, perché altrimenti la notte scorsa lui, la moglie, i suoi cinque figli, il fratello e i suoi genitori sarebbero rimasti in piedi per cercare di bagnarsi solo i piedi. Banale, troppo, chiedere se il danno sia stato riportato al camp manager. La risposta è furiosa, e a cosa serve riportarla?
Shariya non è stata l’unica pozzanghera ad ospitare migliaia e migliaia di famiglie. A Garmawa e Khanke la situazione è molto simile e l’unica, determinante differenza la fa chi ha costruito il campo. Perché significa individuare subito chi ha dato alle tende una base in cemento e chi invece ha forse pensato che la ghiaia svolgesse il suo ruolo rinfrescante come fa d’estate. Ma qui siamo in inverno, ormai abbastanza inoltrato. E durerà per almeno altri tre mesi.
Per questo le domande che ci si può porre sono abbastanza insolite. Ci si aspetterebbe una rabbia ricchissima, una rivolta di popolo, ma di quelle vere, di cui c’è da aver paura. E invece le parole forti sono sporadiche. Ci sono, non mancano affatto. Dispiacere e dispiacersi sono i verbi che descrivono forse al meglio quanto gli occhi vedono in un’istantanea. Per capire di più occorre fermarsi, ascoltare, parlare con chi questo dramma lo vive da mesi e sotto ogni punto di vista.
Khalid, per fare un esempio immediato, è arrivato in Kurdistan dopo essere fuggito dal suo villaggio vicino Sinjar, Khatania. Prima però ha passato 7 giorni imprigionato nel palazzo dove abitava insieme ad altre famiglie. Daesh era arrivato e aveva conquistato tutto. Vorrei passare un’intera giornata con lui ad ascoltare quanto ha da raccontare. E moltiplicherei questa esperienza per oltre 700 mila, quanti sono gli iracheni rifugiati in Kurdistan solo qui a Dohuk.
Numeri, abbondanza, ricchezza. Di quella vera, non solo incommensurabile come la sensazione che ti lascia un sorriso e la dignità con cui le persone che incontri ti accolgono, raccontano, collaborano e ti offrono del tè. È grande, davvero, e non sai come e se ringraziare se ti viene offerto un letto, pasti di una bontà indescrivibile, e l’accompagnamento a luoghi sacri che mai avresti pensato di visitare.
La settimana scorsa Husam, Sudad, Gigi ed io siamo andati a Baadre, dove ci sono le rovine del castello dove risiedeva l’ultimo imperatore ezida*. Ora oltre alla popolazione locale ci sono più di 1.700 famiglie ezide e cristiane scappate da Sinjar e Bashiqa. Vivono in case incomplete, e della generosità della comunità. Per il resto aria, té, sole, pioggia e attesa. Hassan e Khasan, fratelli, sostengono la famiglia portando l’acqua, andando in giro cercando aiuto, provando ad avere i contatti giusti. Shammu invece ha come unico passatempo guardare i bambini che giocano fuori, quando c’è il sole, che gli riscalda un po’ la pelle. È invalido, gli manca una gamba da 15 anni, postumi di una storia che nel 90% dei casi è molto fresca nella memoria delle persone. Più di quella iniziata con la Guerra del Golfo del 1991 e delle più recenti invasioni statunitensi e di Daesh. È la guerra Iraq-Iran dell’ ’80-88. Terribile, violentissima, nei ricordi curdi delle persecuzioni di Saddam, e nelle reminiscenze irachene della prigionia iraniana. Che nel caso di Khasan è durata 7, lunghissimi anni, dopo i quali una vita normale non è stata più possibile. Oggi senza la famiglia del fratello lui non sarebbe nessuno, “perché sono schizofrenico, non so stare con una donna, e non posso farcela da solo”.
Dopo Baadre è arrivata la volta di Lalish, il tempio sacro per eccellenza degli Ezidi*. Qui le parole forse sono inutili. Difficile descrivere l’atmosfera incantata, tetra e al tempo stesso pacifica che abbiamo trovato sul far del tramonto, mentre entravamo e leggevamo i cartelli “No hunting”, divieto di caccia. La violenza nel credo ezida è vietata.
Percorrere a piedi la strada che porta al tempio, i volontari che puliscono il percorso e il tempio con scope di faggina – o rami secchi assemblati meticolosamente. Fedeli che distribuiscono cordicine bianche intrise di olio per sostenere la fiamma. “Fuoco, acqua e terra sono la base della vita, per noi ezidi è il principio da cui nasce il resto”, mi dice Hussam. Il tempio infatti ne è pieno di fuoco, acqua e terra, attorno ai quali si prega, si baciano le mura, ci si stringe le mani, si esprimono desideri facendo nodi alle lenzuola colorate che adornano le colonne, all’interno. Di questa ricchezza ne respiri il sapore, lo osservi in silenzio mentre ascolti racconti che non potrebbero finire mai.
Poco prima di arrivare a Lalish, proprio a 1 km di distanza, c’è un pozzo petrolifero. Ce lo indica la fiamma, che brucia 24 ore su 24 ore e non ha nulla a che vedere con la sacralità del tempio. Però racconta anch’essa qualcosa di importante. Ricorda che l’Iraq è un paese profondamente ricco. Di petrolio, di acqua, di cibo, di umana bellezza. Te ne parlano tutti, sfollati che vivono dei campi, gli abitanti di Dohuk, imprenditori, commercianti, religiosi, rifugiati siriani. Anche in questo caso la domanda è di una superficialità ed efficacia disarmante. “Perché allora tutto questo? Come fai a torcere un solo capello a questa ricchezza?”. La risposta è un’altra storia, e non ce n’è una sola, e nessuna è scontata. Nessuna è decisiva. Venerdì 28 novembre, c’è il sole, non piove. Per alcuni credenti sono sicuro che sia un segnale divino. Ma anche per altri credo non manchi l’occasione di sorridere, una volta di più, di fronte al fango che li circonda.
* Il termine Êzid significa “Dio”. È da lì che origina il nome della religione e della comunità. “Yazida” invece è stato introdotto da Saddam Hussein, nel senso che è stato scritto proprio sulla carta di identità di coloro che da allora sono stati conosciuti più comunemente come “yazidi”. Questo perché c’è stata la volontà politica di assegnare le loro origini al periodo di Umayyad Caliph Yazid, califfo ottomano della dinastia Ummayad che ha regnato dal 647 al 683. In pratica è significato mettere nero su bianco che gli Ezidi sono di origine musulmana, fatto assolutamente non vero. Questa storia me l’ha raccontata per la prima volta l’amico Latif al-Saadi prima di partire. La stessa storia me l’ha ricordata Hussam, prima di arrivare a Lalish.
Testo già pubblicato su Osservatorio Iraq – Medio Oriente e Nord Africa
(Post di Stefano Nanni, Community Mobilization Coordinator Dohuk Area, Un Ponte per…)
Lascia un commento