Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm
di Lorenzo Bianchi
Con un camion e un giubbotto imbottiti di esplosivo ha puntato sul quartier generale delle forze dell’ordine a Kalar, una città del Kurdistan iracheno non lontana da Kirkuk. Una gomma si è bucata e un curdo di 19 anni ribattezzato dai suoi compagni di Guerra Santa Haji – il titolo onorifico di chi ha fatto il viaggio alla Mecca,…… (ma non è il suo vero nome) – si è consegnato agli uomini dell’Asayish, il Dipartimento di sicurezza del Kurdistan iracheno. La sua storia viene raccontata sulla stampa curda.
Colpisce la banalità del suo reclutamento per un’azione potenzialmente devastante e sanguinosa. Il primo contatto con l’Isis, suo e di un suo amico, è stato su Facebook, dopo la caduta di Mosul in giugno. Hanno conosciuto in questo modo un arabo di Kirkuk che ha organizzato il loro viaggio a Mosul. “Volevamo solo applicare le regole del Corano sulla terra”, è la sua elementare spiegazione. Gli pareva necessario fare qualcosa contro “l’immoralità e l’adulterio che dilagano in tutto il mondo, compreso il Kurdistan”.
L’Isis lo ha mandato a Saadiya, nel settentrione della provincia di Diyala, vicino al confine con l’Iran. Lo hanno sistemato in uno dei tanti palazzi che erano a disposizione di Saddam Hussein quando governava il Paese e poi lo hanno trasferito in un alloggio confiscato a una famiglia sciita. Ha convissuto con altre quattordici persone, 12 arabi e 2 stranieri. Nelle ultime 24 ore di quel soggiorno ha incontrato Abubakir, un altro curdo. “Chiamavo mia madre ogni giorno – ha raccontato – con il cellulare di un mio amico. Piangeva e mi supplicava di tornare a casa”. Interrogato a lungo sulle sue convinzioni religiose, ha dovuto ammettere che del Corano non sapeva moltissimo. La fonte delle sue convinzioni sono stati i sermoni di un imam trasmessi da una tv locale.
Nel periodo di preparazione alla missione ha assistito a diverse decapitazioni. I guerriglieri le filmavano con i telefonini e le commentavano nei momenti di pausa. Un barbuto istruttore dell’Isis gli ha insegnato come innescare l’esplosivo e come usare un congegno di riserva se il primo avesse fatto cilecca. Aveva anche una terza possibilità, quella di far saltare il camion – bomba con il cellulare. Lo stesso addestratore gli ha insegnato anche come immolarsi con il giubbotto che indossava.
I suoi ultimi momenti prima della missione suicida sono stati filmati. È riuscito a superare diversi posti di blocco dicendo alle guardie che portava cibo. Un’autobotte blu gli indicava il cammino giusto. All’ultimo check point gli hanno chiesto di mostrare i documenti e lo hanno lasciato andare, accontentandosi della solita spiegazione sulle derrate alimentari. “L’obiettivo – spiega – e le strade vicine li avevo già visti in un video. L’autobotte è sparita. Un pneumatico si è forato. Ho girato a sinistra quando ero a soli 200 metri dal palazzo che avrei dovuto distruggere. Ero agitato. Non volevo farlo”. Ha cominciato a girare a caso fino a quando l’hanno preso. Ora ha un solo desiderio: “Vorrei tornare a casa, se e quando mi rilasceranno”
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All’inizio di novembre Robert Hannigan, responsabile dell’agenzia britannica di spionaggio elettronico (Gchq), aveva chiesto collaborazione ai colossi americani della rete. “La sfida – aveva detto al Financial Times – può essere vinta solo con una più forte collaborazione da parte delle aziende tecnologiche. L’Isis ha abbracciato il web come una cassa di risonanza nella quale promuove la propria attività, intimidisce la gente e radicalizza le nuove reclute”.
fonte: L’Huffington Post
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