Aggiornato il 03/05/18 at 04:40 pm
di Francesca GnettiI
Sono 207mila i profughi siriani che si sono rifugiati nel Kurdistan iracheno. Le agenzie umanitarie faticano a rispondere all’emergenza e la popolazione locale teme un contagio del conflitto…….. Secondo il capo del dipartimento Affari Esteri del governo regionale, l’unico modo per risolvere la crisi è “affrontare la questione dell’identità” e delle minoranze in tutto il Medio Oriente. Ogni giorno centinaia di siriani percorrono a piedi quasi cinque chilometri lungo la strada sterrata che attraverso colline aride e brulle conduce al valico di Sahela, porta di ingresso alla regione del Kurdistan, nell’Iraq settentrionale. Negli ultimi mesi è stato inarrestabile il flusso dei profughi in fuga dal conflitto che logora la Siria ormai da 33 mesi, in direzione del paese vicino.
Previsioni inquietanti. Secondo l’Alto Commissariato dell’Onu per i Rifugiati (Unhcr) – guarda la mappa – sono 207mila i siriani che si sono riversati in Iraq, principalmente nella regione autonoma del Kurdistan, più stabile e sicura rispetto al resto del paese, a sua volta prostrato da una nuova ondata di violenza interconfessionale. In maggioranza curdi, ma anche arabi e cristiani, molti di loro sono fuggiti a partire da metà agosto, quando il governo regionale curdo ha riaperto la frontiera a Peshkhabour, sul fiume Tigri, chiusa a maggio. Il numero dei profughi siriani nell’Iraq settentrionale potrebbe superare il mezzo milione entro la fine dell’anno.
Sostegno insufficiente. “L’impatto dei profughi siriani sul Kurdistan iracheno è enorme”, ha avvertito Falah Mustafa Bakir, capo del dipartimento Affari Esteri del governo regionale del Kurdistan dell’Iraq, durante una conferenza organizzata a Roma dalla Sioi (Società italiana per l’organizzazione internazionale) il 10 dicembre. In una regione di 5,5 milioni di abitanti, l’arrivo dei profughi pone una serie di difficoltà che un’entità ancora in lotta per uscire dall’isolamento fatica ad affrontare. Mancano ricoveri, acqua, cibo, assistenza medica e sanitaria. “Ci sono diecimila donne incinte e persone con disabilità e con malattie croniche”, ha proseguito Mustafa, “il sostegno delle agenzie dell’Onu e dei paesi donatori non è sufficiente a rispondere all’emergenza”. Il 47 per cento del Piano di risposta regionale alla crisi siriana in Iraq, infatti, non è ancora stato finanziato. Il problema principale adesso è l’arrivo dell’inverno, con temperature che in quelle zone scendono spesso sotto lo zero.
Dentro e fuori dai campi. La maggior parte dei profughi ha trovato rifugio nei campi allestiti in prossimità delle tre città principali della regione: Dohuk, Erbil e Sulaimaniyah. Nel campo di Domiz, 20 chilometri a sudest di Dohuk e circa 60 dalla frontiera con la Siria, vivono 80mila persone; a Kawergosk, appena fuori dalla capitale Erbil, sono in 15mila, in maggioranza donne e bambini. Vivono in tende erette su terreni polverosi, che con la pioggia diventano paludi di melma. Le agenzie umanitarie lavorano alla costruzione di nuovi campi, ma la mancanza di fondi ha costretto a posticiparne l’apertura. Campi di accoglienza temporanea sono spuntati ovunque e nuove tende sono allestite all’interno di campi sportivi e nei terreni incolti. Almeno 120mila siriani hanno trovato ospitalità da familiari o amici, oppure hanno affittato appartamenti o stanze. Per loro è ancora più difficile ricevere assistenza e procurarsi i beni di prima necessità.
Il timore del contagio. Inizialmente l’accoglienza dei profughi da parte dei curdi è stata migliore rispetto ad altri paesi della regione, ma nel tempo la situazione è diventata più critica. Alcuni campi sono stati recintati e la popolazione locale ha cominciato a lamentarsi della concorrenza dei siriani sul mercato del lavoro. Molti temono inoltre che il conflitto siriano possa mettere a repentaglio la stabilità faticosamente raggiunta nella regione, soprattutto dopo l’attacco del 29 settembre al quartier generale della sicurezza a Erbil, che ha ucciso sei persone ed è stato rivendicato dallo Stato islamico dell’Iraq e della Siria.
La questione dell’identità. I curdi erano la più grande minoranza etnica in Siria e rappresentavano il 10 per cento dei 23 milioni di abitanti del paese. Concentrati nella regione nordorientale, una delle più povere del paese, vicina alla frontiera con l’Iraq e la Turchia, in seguito allo scoppio della guerra i curdi sono riusciti a mantenere il controllo della zona e ora avanzano l’ipotesi di costituire una regione autonoma curdo-siriana. Ma quello che sta più a cuore alle autorità curde, ha assicurato Falah Mustafa, è ripristinare la pace nella regione: “La creazione di una Siria democratica è l’unico modo per portare la tranquillità nella zona. Il futuro della Siria deve essere deciso dalla popolazione, comprese le minoranze”. Per questo il ministro auspica la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti nel conflitto alla conferenza di pace Ginevra 2, in modo che si possa affrontare il problema alla radice. La cosa fondamentale, in Siria come in tutta la regione, ha concluso Mustafa, è “affrontare la questione dell’identità, altrimenti non ci sarà stabilità in Medio Oriente”.
Fonte:repubblica.it
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