Aggiornato il 03/05/18 at 04:33 pm
di Stefano Maria Meconi
Erbil (Kurdistan dell’Iraq) – 180 milioni di euro per il restauro della cittadella di Ibril, capitale morale del Kurdistan, e un progetto affidato all’architetto romano Patrizia Barucco, direttrice del settore culturale del Kurdistan iracheno…… Si può partire da qui per analizzare e comprendere lo sviluppo che ha recentemente avvolto questo lembo di civiltà osteggiata dai secoli, e che ora, complice la neonata ricchezza da petrolio, sogna finalmente di coronare la volontà di indipendenza.
I curdi, popolo presente nella regione (un vasto lembo di territorio che abbraccia il 24% del territorio della Turchia, l’8% di quello iraniano, il 15% di quello iracheno e il 6,5% della Siria) oltre due millenni prima della nascita di Cristo, sono stati nel tempo ridotti a una minoranza senza parola e senza diritti, nonostante, sul finire della Prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni avesse previsto la possibilità della nascita di uno stato curdo. Poi venne Mustafà Kemal, Ataturk per gli ex-ottomani, che in nome della Turchia libera e indipendente pose fine a ogni pretesa, curda e internazionale, e lo fece ufficializzare in un nuovo trattato del 1923.
Sono passati 88 anni, e la situazione è radicalmente cambiata: l’Iraq è un paese ancora sconvolto dall’invasione statunitense e dal conflitto religioso tra sciiti e sunniti, la Siria è alle prese con una sanguinosa guerra civile tra fedeli a Bashar al-Assad e difensori della democrazia, l’Iran minaccia Israele e si sente da questo minacciato.
In Kurdistan nulla di questo sembra così vicino: Ibril è la nuova Mecca delle industrie petrolifere, degli architetti e delle industrie automobilistiche. Exxon, Chevron, Iveco. Dai giganti americani dell’oro nero sino alla divisione di Fiat Industrial che sviluppa veicoli industriali, tutti vogliono allungare i tentacoli su quelle decine di miliardi di barili di petrolio potenzialmente estraibili, una cifra enorme, rispetto ai 250 mila barili prodotti giornalmente, che tuttavia rappresentano una goccia nel mare petrolifero.
Basti pensare che il 20° paese produttore al mondo di petrolio, l’Indonesia, ha una capacità estrattiva di 344 milioni di barili/anno, quasi quattro volte la produzione curda di 91 milioni. Tuttavia, le possibilità di sviluppo sono enormi, e ciò può giustificare i sogni del “Paese che non c’è”.
Il Kurdistan è un’entità politica effettivamente riconosciuta solo nell’Iraq, che la considera una regione autonoma, concedendole ampi margini di manovra, come ad esempio la costituzione di un esercito regionale staccato da quello di Baghdad, e la possibilità di siglare contratti internazionali senza passare dal controllo centrale, particolarmente da quello del ministero del Petrolio, che amministra una produzione annua di poco superiore al miliardo di barili (il 3,4% dell’intera produzione mondiale).
L’autonomia regionale ha permesso a questa parte del futuro Stato di progettare e portare avanti uno sviluppo dal forte impatto economico: grattacieli, oleodotti, infrastrutture che ricordano vagamente quelle degli Emirati, come Dubai o Kuwait, che hanno costruito le proprie fortune grazie all’estrazione del petrolio. Sebbene l’Iraq sia ancora devastato in grandi parti del suo territorio – almeno non quello desertico – e la stabilità politica sia sostanzialmente una chimera, il Kurdistan si affaccia all’Occidente con prepotenza, ribaltando dinamiche che purtroppo affliggono i curdi di Iran e Siria.
Non è, in ogni caso, in dirittura d’arrivo una nazione autonoma e indipendente, e le cause di questa lentezza, che come già detto pone le sue radici in quattro millenni di storia e repressione, sono molteplici: innanzitutto, v’è da capire quali siano le reali intenzioni della Turchia. Il governo di Ankara, nonostante permetta il passaggio dei camion (italiani, una commessa da 65 milioni di euro che lascia ben sperare per futuri affari) sul suo territorio e acquisti buona parte di quel greggio, sarebbe davvero risposto a rinunciare a un quarto della sua superficie in favore dei curdi? Guardando al genocidio in Armenia e alla repressione curda, la storia proporrebbe un “no” secco come unica risposta.
Fomte:Wekeupnews
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