Aggiornato il 03/05/18 at 04:33 pm
di Andrea Glioti
La politica irachena attraversa una fase di ridefinizione delle alleanze tra partiti e minoranze, che stanno dando vita a nuovi blocchi di potere. Quello che non cambia è la violenza che quotidianamente scuote il paese…… Al centro dell’attuale crisi politica c’è il ritiro della fiducia al primo ministro sciita, Nouri al Maliki, avanzato dall’Alleanza del Kurdistan, dalla Lista al Iraqiya sostenuta in maggioranza dai sunniti, e dai seguaci dell’islamico sciita Moqtada al Sadr. Questa strana alleanza a tre spiega che la colpa è dell’autoritarismo di Maliki e del suo mancato rispetto degli accordi sottoscritti a Erbil nel dicembre 2010, grazie ai quali si era giunti alla formazione dell’attuale governo di coalizione.
Il presidente e i picconatoriSul testo degli accordi e su quanto fosse stato effettivamente concordato tra la Coalizione dello stato di diritto di Maliki e al Iraqiya esiste una certa confusione. L’unico documento firmato dal presidente del Kurdistan, Mas’ud Barzani, dal leader di al Iraqiya Iyyad Allawi e dal primo ministro Maliki prevedeva la creazione di un Consiglio nazionale per le politiche strategiche sotto la presidenza di Allawi. Peccato che ora Maliki sostenga che tale organismo sia anti-costituzionale, perché sottrae quote di potere esecutivo al premier. Barzani afferma invece di aver firmato un accordo separato con Maliki, incentrato su 19 condizioni, la più importante delle quali era l’implementazione dell’articolo 140 della Costituzione – referendum popolare per risolvere l’assegnazione dei territori contesi tra arabi, curdi e turcomanni – entro due anni.
Sia che abbia ragione Maliki sia che invece siano i suoi oppositori a essere nel giusto, il presidente della repubblica, il curdo Jalal Talabani, si è rifiutato di ratificare la petizione per il ritiro della fiducia, sostenendo siano state raccolte solo 160 firme, senza raggiungere il quorum di 163 (metà dei parlamentari iracheni più uno). In una lettera inviata a Barzani, il presidente ha minacciato le dimissioni, qualora venisse costretto a cambiare posizione, insistendo sulle garanzie ricevute da Maliki circa il rispetto degli accordi sottoscritti.
La soluzione rimasta in mano agli oppositori è rivolgere un’interrogazione parlamentare a Maliki, seguita da una seduta in cui si voti il ritiro della fiducia. L’opposizione di Talabani inizia però a far vacillare il fronte dei dissidenti, tanto che alcuni esponenti della leadership del partito di Barzani (Partito democratico del Kurdistan, Pdk) si sono detti favorevoli a sostenere la soluzione proposta dal presidente iracheno.
Ultimamente, lo stesso Moqtada al Sadr sembra ritrattare la sua intransigenza sul ritiro della fiducia, sostenendo di volersi concentrare su un programma di riforme.
Le pressioni degli ayatollah
Curdi contro curdi, sciiti contro sciiti. L’empasse era inevitabile. Negli sviluppi della vicenda però non vanno sottovalutate le spinte provenienti dalle potenze regionali, l’Iran sul fronte sciita, i paesi del Golfo e la Turchia su quello sunnita. Teheran ha fatto pressione per mantenere Maliki in sella al governo almeno altri due mesi, e Sadr ha dovuto trascorrere dieci giorni nella Repubblica islamica. Il marja’iyyah – la fonte di riferimento religioso – dei sadristi, l’ayatollah Kazim al Ha’iri, ha persino emesso una fatwa dall’Iran contro le alleanze con i partiti laici, per impedire l’avvicinamento di Sadr ai curdi e ad al Iraqiya. Ma Moqtada al Sadr per ora non si smuove.
Ma come si deve interpretare la sua insistenza nel contrapporsi a Maliki? Diversi analisti considerano la posizione del leader sadrista di natura strategica e non tattica, finalizzata quindi a indebolire le aspirazioni di Maliki all’egemonia sul panorama politico sciita.
In un’intervista rilasciata al sito di al Jazeera dagli analisti politici Sarmad al Ta’i e Ahmad al Abyad, le aspirazioni di Sadr vengono considerate alquanto ambiziose. Il primo sostiene che il giovane leader sadrista stia cercando di dimostrare all’Iran – e all’universo sciita in generale – di non essere un semplice catalizzatore di voti, ma un asse portante della politica irachena e una futura autorità religiosa. Non è inoltre la prima volta che al Sadr prende cautamente le distanze da Teheran per arginarne le ingerenze nella politica interna irachena. Al Abyad vede invece nella presa di posizione di Sadr un tentativo di ripulire la sua immagine di miliziano, impegnato in prima linea durante gli anni più sanguinari del conflitto confessionale iracheno (2006-2008). Avvicinarsi ai curdi e ai sunniti di al Iraqiya per isolare Maliki diventa quindi un primo timido passo in direzione del superamento dei trinceramenti confessionali. Una promettente lettura degli sviluppi politici tutta da verificare.
Frammenti di Kurdistan
E le divisioni tra curdi? Secondo il direttore del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Sulaymaniya, Sardar Qadir, intervistato dal quotidiano panarabo al Hayat, un ruolo fondamentale nella diatriba in corso è svolto dalle posizioni dei due leader negli schieramenti regionali: Barzani più vicino al Golfo e alla Turchia, Talabani all’Iran. Da parte sua, Maliki ha poi giocato sulle rivalità mai sopite tra Unione patriottica del Kurdistan di Talabani (Upk) e il Pdk di Barzani. Il presidente iracheno Talabani sembra essersi già premunito per un’eventuale rottura con Barzani, e agli inizi di giugno ha elogiato per la prima volta il suo acerrimo rivale curdo Nashirvan Mustafa, leader del Movimento del cambiamento (Gorran). Il partito di Mustafa è particolarmente popolare nella roccaforte dell’Upk, la provincia di Sulaymaniyya, e detiene 25 seggi nel parlamento curdo. Allearsi con il Gorran consentirebbe a Talabani di scaricare il Pdk mantenendo all’incirca lo stesso peso in parlamento.
Una primavera mai sbocciata
La routine della precarietà politica irachena si accompagna agli altrettanto consueti spargimenti di sangue. Il bilancio degli attacchi verificatisi ieri nelle province di Karbala e Diwaniyah è di oltre 150 morti. Il politologo inglese Charles Tripp fa notare come la violenza sia stata strumentalizzata da Maliki e dai suoi seguaci. Per dare l’impressione di essere in controllo del paese, con l’avvicinarsi del ritiro statunitense e nei mesi successivi, Maliki è passato da un uso della forza mirato a contenere i gruppi paramilitari, alla repressione indiscriminata di ogni forma di opposizione, anche non violenta. Basti ricordare la repressione dei moti di piazza divampati in Iraq sull’onda della primavera araba e pressoché ignorati dai media occidentali e arabi.
La pratica di cooptare alcune milizie nella politica irachena non deve essere vista solo come una forma di riconciliazione – prosegue Tripp – poiché dietro vi si nasconde uno sdoganamento della violenza informale, allo scopo di utilizzarla a beneficio dello stato. Così Maliki ha favorito l’entrata in politica della Lega dei Virtuosi (‘Asa’ib Ahl al-Haqq) in funzione anti-sadrista. Secondo l’analisi di Tripp, la violenza non governativa è poi l’unico sistema consolidato per ottenere un riconoscimento politico, un canale di «dialogo» con il governo, facendo ricorso allo stesso «linguaggio» adoperato dalle autorità.
E se è il governo stesso ad alimentare il caos, le speranze di stabilizzazione sono quasi inesistenti.
Fonte:Europa
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