Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm
di Francesco Marilungo
Nell’immaginario collettivo, alla voce “carcere turco” corrisponde nove volte su dieci quella sorta di moderno inferno dantesco mostrato dall’angosciante Fuga di Mezzanotte, (Alan Parker, 1978); a poco sono servite le recenti scuse dello sceneggiatore1, tale Oliver Stone, che ha ammesso di aver posto in cattiva luce l’intero paese; nell’immaginario collettivo, a quella voce, rimangono associate quelle immagini. Io ora però vi voglio proporre una sostituzione: vi propongo di sostituire quelle immagini crude, con immagini ancora più crude; di rimpiazzare i ricordi delle torture viste, con visioni di torture ancora più crudeli; vi propongo insomma di vedere Duvar, o secondo il titolo francese Le mur, di Yılmaz Güney, girato nel 1983, cinque anni dopo il grande successo di Parker.
Al di là dell’immaginario, scendendo nel territorio del reale, nella cronaca, nella storia, reportage, inchieste, articoli e quant’altro testimoniano che la situazione delle carceri turche non è completamente cambiata2, anche se passi in avanti si sono fatti registrare3. Le carceri sono ancora il luogo della repressione del dissenso politico e ideologico, il luogo della ricerca di un consenso forzoso, luogo di contenimento delle problematiche sociali (il famoso tappeto sotto cui si nasconde la polvere) e infine luogo di negazione dei fondamentali diritti umani (famose le celle modello F). Grazie all’elastica applicabilità della legge anti-terrorismo, le carceri sono zeppe di detenuti politici, giornalisti, intellettuali, ragazzini, in grandissima maggioranza curdi. Per cui nel corso della storia esse sono state anche luogo di circolazione e fermentazione delle idee, luoghi di forme di protesta estreme e organizzate come lo sciopero della fame, luoghi di resistenza. Yılmaz Güney quelle carceri le conosceva bene e nel 1976 mentre alloggiava nel penitenziario di Ankara ebbe luogo una rivolta di prigionieri, una delle tante; altre avrebbero preso vita nel 1982, all’inasprirsi del regime carcerario dopo il colpo di stato, poi nel 1993, con uno sciopero della fame esteso alle decine di migliaia di detenuti politici e conclusosi con il massacro a mazze chiodate di undici militanti del Pkk nel carcere di Diayrbakır e altri scioperanti morti di fame. Guardando dunque all’intrecciarsi di storia e presente, di racconto e realtà, questo ultimo film di Güney ci rimane fra le mani con tutto il sapore di un testamento e di un ammonimento.
Il film è girato in un’abbazia francese, ma intende rappresentare il carcere di Ankara in cui lo stesso regista fu detenuto. Nello stesso carcere tre sezioni: quella maschile, quella femminile e quella minorile. A dividerle il muro del titolo. Le immagini grezze del regista, che tornava a dirigere in prima persona un film dopo anni di sceneggiature scritte da dietro le sbarre, raccontano la vita dei tre gruppi, con particolare attenzione ai bambini. È fra loro infatti che il dolore sa mostrarsi con maggiore grado di crudeltà e di gratuità. Le ispezioni e le percosse delle guardie, i ragazzini costretti a mangiare le proprie pulci, gli abusi sessuali, i lavori forzati e ancora le percosse, le vessazioni. Infine la morte di un ragazzino, freddato mentre cerca di fuggire: è la goccia che fa traboccare il vaso; la rivolta si organizza e si barrica all’interno delle celle per chiedere trattamenti più umani. Il finale lo lascio a voi, avvisandovi di non farvi troppe illusioni. Durante la vita di cella il popolo d’Anatolia ci è mostrato con tutte le sue tradizioni, i canti, le melodie festanti o sofferenti della bağlama, i balli, le superstizioni, i cibi. Insomma vedendolo resistere nel chiuso della prigione, Güney ce lo fa immaginare com’è al di fuori, costretto da catene sociali, da vincoli d’onore, ma ache depositario di tradizioni secolari, rurali/orali, intatte e vitali. Nel frattempo le esercitazioni e i cori delle guardie e l’intrusione audio di spot commerciali radiofonici, ci danno il senso dell’ipocrisia della società, che negli anni in cui il film è girato associava militarizzazione e ingresso nel luccicante regno del consumismo occidentale.
Lo stile di Guney è davvero degno di nota. È grezzo, come dicevamo, non ha grandi rifiniture artistiche, anche se a volte si riconosce un certo gusto per la composizione dell’immagine. Con naturalezza offre immagini cattive, spietate, marchiate a fuoco da un sapore di realtà che è difficile non avvertire allo stomaco. Ricordiamo il piano sequenza condotto dal punto di vista di una carriola, fisso sul volto di un prigioniero i dodici anni, sofferente mentre va al lavoro forzato in inverno, schifato da tutti i compagni per il fatto di non aver avuto il coraggio di denunciare gli abusi subiti; oppure il primo piano violentissimo di un parto, i tonfi delle percosse, i dettagli di ematomi, cerotti, sangue rappreso. Un pulp neo-realista, senza artificio narrativo. Un film denuncia e un film poesia al contempo, di quelle poesie scritte con parole normali, non ricercate, ma dirette a tutti, alla gente, alle coscienze più che ai sensi estetici. Gli attori vengono dagli arabi delle periferie francesi e dai turchi delle periferie tedesche; era probabilmente gente che sapeva come muoversi all’interno delle pareti di un carcere.
Anche qui ci resta da scioglier il problema della reperibilità. L’edizione originale è francese, quindi credo che in Francia, o comprando dagli store francesi non ci siano problemi. Pare che la Rai (probabilmente quell’asincronico di Ghezzi) l’abbia passato più di una volta e quindi si dovrebbe riuscire a scaricare senza troppi patemi. Resta il fatto che Yılmaz Güney sia un’artista che va riscoperto, o forse solo scoperto, in Italia. Del resto la lezione di questo tipo di cinema è tutta italiana, ma in Güney assume dei toni molto più estremi, perché più estrema è la realtà che nel suo paese si vive. La dedica finale è ai ragazzini conosciuti da Güney nelle sue esperienze carcerarie: vuole essere come un bicchiere d’acqua fresca offerta a quelle labbra che nel buio delle celle hanno urlato con voci puerili la sete alle orecchie del regista. Güney sarebbe morto poco dopo questo film di cancro allo stomaco e quindi Duvar ci resta come l’immagine più emblematica della sua parabola artistica e della sua biografia.
Attori principali: Tuncel Kurtiz, Ayşe Emel Mesci, Malik Berrichi, Nicolas Hossein; akay; Montaggio: Sabine Mamou; Musiche: Ozan Garip Şahin – Setrak Bakirel; Cinematografia: Izzet Akay; Scrittura e realizzazione: Yılmaz Güney. Produzione: Güney Productions – M.K.2 Productions – T.F.1 films productions – Ministero della Cultura francese; Origine: Francia/Turchia 1983; Durata: 120′.
fonte: Lankelot
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