Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm
di Diego Caserio
A quasi nove anni dall’invasione americana del 2003 stavolta il ritiro è davvero alle porte. Il paese però naviga ancora in un sanguinario conflitto sunnita-sciita mai realmente terminato e sempre………. a rischio di riesplodere con tutta la violenza del biennio 2006-2008. ll miglioramento dello stato della sicurezza degli ultimi tre anni, millantato dal premier sciita Nouri al Maliki, è nelle parole più che nei fatti, considerata la frequenza giornaliera degli attentati. La quotidianità è fatta di innumerevoli vittime civili (domenica scorsa tre esplosioni a Bagdad hanno fatto otto morti), anche se l’ultimo massacro “degno” dell’attenzione mediatica risale al 12 settembre, sulla strada di Nakhib, dove rimasti uccisi 22 pellegrini sciiti di ritorno dalla Siria.
Lo spettro della secessione
Quell’attentato ha scatenato accuse reciproche tra la provincia (muhafaza) sunnita di al Anbar, dove è avvenuto, e quella sciita di Karbala, da cui proveniva la maggioranza delle vittime. Un sintomo evidente delle tensioni istituzionali che percorrono il paese. In un simile contesto, il presidente sunnita della camera, Usama al Nujaifi, reputa tra l’altro opportuno sottolineare periodicamente come i sunniti si sentano cittadini di serie B, marginalizzati dall’attuale governo dominato dalla coalizione sciita dello Stato di diritto (Dawlat al Qanun) e pertanto legittimati a creare una regione autonoma (iqlim) sunnita. Nujaifi non ha dovuto attendere molto perché qualcuno raccogliesse il suo appello: pochi giorni fa, la provincia sunnita di Salahuddin ha presentato la richiesta formale per diventare regione autonoma, suscitando la levata di scudi dei fedeli di Maliki, appellatisi alla tutela dell’unità nazionale. Sarà curioso osservare la reazione di questi ultimi quando la provincia sciita di Bassora, roccaforte degli elettori del premier, chiederà di diventare una regione.
Le aspirazioni federaliste, al di là delle connotazioni confessionali, sono espressione di interessi economici e tutelate dalla Costituzione. Partecipando alla sua stesura nel 2005, il costituzionalista Zaid al Ali aveva già sottolineato come non vi fossero sufficienti garanzie contro la disintegrazione del paese e la formazione di macro-regioni su base etnico-confessionale: un nord curdo, un centro sunnita e un sud sciita.
Autogoverno e petrolio
Il rischio è all’ordine del giorno e lo stesso Kurdistan iracheno, l’unica regione autonoma attualmente esistente, non fornisce segnali incoraggianti, quando il suo presidente Ma’sud Barzani afferma di essere pronto a combattere per i curdi, qualora questi gli chiedessero l’indipendenza.
A prescindere dalle istanze separatiste, ai curdi non mancano gli interessi per minacciare l’unità nazionale: la questione più spinosa rimane il destino della regione di Kirkuk, che galleggia su un mare di petrolio. Gli abitanti del Kurdistan ne reclamano l’annessione tramite referendum, sulla base dell’articolo 140 della Costituzione. Il governo di Bagdad ha superato da tempo la scadenza fissata per la risoluzione del problema (prevista entro il 2007) e si discute ancora della restituzione delle terre dei coloni arabi insediati da Saddam durante la campagna di arabizzazione della provincia. Diversi politici arabi hanno inoltre esplicitato la loro netta opposizione alle rivendicazioni curde.
«Non lasciateci soli»
Solo la presenza americana ha finora evitato che le milizie arabe si scontrassero con quelle curde (peshmerga); tuttavia nel 2012 il Pentagono dovrà aver completato il ritiro del suo contingente e basterà ben poco ad accendere gli animi intorno ai pozzi petroliferi di Kirkuk.
Il paradosso più triste è che il ritiro americano – diventato realtà ufficiale solo negli ultimi mesi – rischia di divenire fonte di ulteriore instabilità. L’Iraq, secondo numerose fonti governative e militari irachene, è impreparato a gestire autonomamente la sicurezza interna.
In un colloquio con un funzionario statunitense, lo stesso capo di stato maggiore dell’esercito iracheno avrebbe definito le forze armate irachene «incapaci di difendere il paese prima del 2020». Difatti la maggioranza dei partiti si era detta favorevole alla permanenza di un contingente limitato di addestratori militari statunitensi, ma l’accordo è saltato per l’insistenza di Washington affinché si concedesse loro l’immunità giudiziaria, condizione inaccettabile per un popolo memore degli orrori di Fallujah e Abu Ghraib. È degli ultimi giorni la notizia, riportata dal quotidiano panarabo al Hayat, di un probabile ultimo incontro tra Usa e Iraq per discutere la questione dell’immunità. Tuttavia, qualora venisse raggiunto un accordo, Bagdad rischierebbe comunque il tracollo politico-militare: le forze irachene sarebbero infatti chiamate a difendere gli addestratori dai Sadristi, il partito-milizia islamista sciita che, oltre ad occupare diversi ministeri, rifiuta categoricamente ogni forma di presenza americana dopo il 2011.
L’Iraq si trova inoltre impossibilitato a rivolgersi altrove, visti i rapporti burrascosi che intercorrono con i paesi confinanti. È di questi giorni la notizia delle offerte provenienti da Ankara e Teheran per addestrare le truppe irachene, proposta declinata dall’Iraq che, secondo fonti governative citate da al Hayat, preferirebbe mantenere i paesi confinanti estranei alla questione.
Tra Turchia, Iran e Kuwait
La reazione non sorprende, considerando i continui bombardamenti turco-iraniani sul Kurdistan iracheno, dove trovano appoggio le milizie anti-governative curde del Pkk (Turchia) e del Pjak (Iran). Senza menzionare le ingerenze politiche e militari iraniane: dopo l’invasione americana, Teheran è diventata molto influente sulla maggioranza delle fazioni sciite irachene e viene accusata di supportarne i relativi gruppi paramilitari. Il contenzioso con la Turchia e l’Iran riguarda anche le risorse idriche, essendo l’economia irachena fortemente condizionata dall’accesso ai corsi d’acqua provenienti da questi paesi (Tigri ed Eufrate in primis). Per quanto riguarda il Kuwait, l’Iraq sta ancora pagando le sanzioni imposte al regime di Saddam per la guerra del Golfo ed è alle prese con un progetto kuwaitano, il porto Mubarak, che rischia di ostacolare la navigazione irachena e scatenare un nuovo conflitto. È al seguito dell’assembramento di gruppi paramilitari sciiti al confine con il Kuwait che Bagdad ha affermato di non essere in grado di prevenire eventuali attacchi.
Il governo iracheno è tanto impotente di fronte alle violazioni commesse da Turchia, Iran e Kuwait, quanto incapace di arginare le attività militari del Pkk e del Pjak o di impedire che i mujaheddin iracheni attacchino il Kuwait. Non è credibile nel garantire la sicurezza dei suoi cittadini come non lo è a livello internazionale.
Rimpiangere Saddam
Nonostante sia noto il rimpianto di molti iracheni per la sicurezza dell’era di Saddam, ci si aspetterebbe che un minimo miglioramento dettato dalla nascita di istituzioni democratiche sia avvenuto. Stando alle parole del ministro degli esteri, Hosheyr Zibari, l’Iraq avrebbe rappresentato l’avanguardia delle primavere arabe. Zibari glissa sull’“aiutino” ricevuto dall’esterno, ma non si può negare che Maliki sia preferibile a Saddam.
Detto ciò, l’attuale premier è però dotato di una spiccata inclinazione al despotismo: da febbraio la piazza Tahrir di Bagdad si riempie ogni venerdì di manifestanti anti-governativi, ma il primo ministro ha già sposato i metodi di altri colleghi, causando morti e feriti tra i dimostranti. Persino un giornalista, Hadi al Mahdi, tra i più noti organizzatori del movimento di piazza Tahrir, è stato assassinato nel suo appartamento a settembre “in circostanze misteriose”. Sul piano della distribuzione delle cariche governative, Maliki ha assunto il controllo dei tre ministeri della sicurezza (difesa, interni e sicurezza nazionale), mantenuti volutamente vacanti negli ultimi dieci mesi, ed evitato la creazione del Consiglio nazionale per le politiche strategiche, che avrebbe dovuto controbilanciare la presidenza del consiglio sotto la guida del rivale Allawi (della Lista al Iraqiya).
La primavera islamica
Forse i più cinici chiuderebbero un occhio sulle istituzioni democratiche, se il governo fosse in grado di garantire una distribuzione della ricchezza e dei servizi proporzionata alle risorse naturali di cui dispone. Non è il caso dell’Iraq, in cui lo stato della rete elettrica nazionale è ancora lontano da standard accettabili e il relativo ministero, travolto da scandali di corruzione, considera un traguardo le 12 ore giornaliere di corrente.
Il settore petrolifero sta lentamente tornando ai livelli produttivi antecedenti l’invasione americana, ma – secondo l’Usaid – oltre 7 milioni di iracheni rimangono sotto la soglia della povertà. Mentre i due principali partiti (al Iraqiya e Stato di diritto) continuano a litigare per la spartizione delle cariche politiche, gli unici a preoccuparsi del problema sono stati i Sadristi, che hanno minacciato di abbandonare l’esecutivo, se non verrà destinato un sussidio ricavato dalle rendite petrolifere a ogni cittadino e non si provvederà a rifornire di carburante gratuito i proprietari di generatori elettrici. L’equazione “islamismo + assistenzialismo = voti” si ripete ancora: i Sadristi sono stati infatti tra i vincitori delle elezioni del 2010.
L’Iraq dimenticato dai media occidentali e arabi, corsi dietro alle “primavere”, è tutt’altro che stabile, dilaniato da correnti separatiste e recrudescenze settarie.
Il contesto iracheno merita maggiore attenzione, perché, al di là delle modalità diverse della caduta del regime, rimane una fonte ricca di avvertimenti per gli “autunni” dei rivoluzionari mediorientali.
fonte: Europaquotidiano
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