Aggiornato il 03/05/18 at 04:34 pm
di Francesco Marilungo
Qualcuno la chiama “Armenia occidentale”; qualcun’altro invece “Kurdistan del Nord”; …….. piaccia o meno, secondo la cartografia corrente la terra in questione appartiene alla Turchia, ne costituisce la sua parte orientale e continentale. Secondo la definizione di de Bellaigue essa è Terra ribelle. Un luogo che da più di un secolo non conosce pace, né stabilità. Un luogo in cui l’identità è un fluido inafferabile e in continua metamorfosi, sulla base di logiche spesso dettate dalla forza e dalla coercizione, altre volte semplicemente indefinibili, arcane, ribelli. Il sottotitolo è eloquente: viaggio fra i dimenticati della storia turca. Partiamo dal principio.
Il Prologo ci racconta di un ravvedimento, di un riassestamento dell’asse focale storico-ideologica. Giovane e rampante corrispondente dalla Turchia per «The Economist», disinvolto, spiantato, padrone della lingua, de Bellaigue si accorge con colpevole ritardo di un’evidenza storica ineludibile: i presupposti del nazionalismo turco, che eleggono l’Anatolia a terra “destinata” alla nazione turca, sono basati, in larga parte, sulla menzogna. Su falsi storici. L’occasione che apre gli occhi del giovane corrispondente anglosassone è un suo articolo pubblicato sulla «New York Review of Books». De Bellaigue vive ormai da anni in Turchia, senza troppi scrupoli o meditazioni ha accettato e fatto propria l’impostazione ideologica del “turco medio” occidentalista, il kemalismo; ammira la figura di Atatürk per la sua caparbia resistenza contro il colonialismo europeo e trascura di criticare il culto ossessivo a cui viene sottoposta. L’articolo scritto per la rivista newyorkese, affronta la storia della Turchia dal sultanato sanguinario di Abdulhamit II alla costituzione della Repubblica da parte di Mustafa Kemal Atatürk, siamo tra l’ultimo quarto del diciannovesimo secolo e il primo del successivo. Qualche giorno dopo la pubblicazione, arriva alla rivista una lettera molto risentita, scritta da James Russell, professore di studi armeni ad Harvard. La «NY Review of Books» pubblica la lettera in cui l’accademico critica aspramente de Bellaigue per la colpevole trascuratezza con cui nell’articolo si faceva riferimento ai crimini compiuti contro gli armeni, proprio negli anni dibattuti dal pezzo. L’autostima professionale di de Bellaigue accusa il colpo. Si ravvede. Chiede scusa e recita un lungo “mea culpa” che poi altro non è che l’insieme delle pagine (317, per 22 euro.) di questo libro. Un viaggio appunto fra quei popoli e quelle identità che il nazionalismo turco, nel suo tribolato affermarsi, ha soppresso, negato o cancellato. Finalmente de Bellaigue si accorge che sotto al tappeto turco c’è un gran bel gruzzolo di polvere. E allora, con onestà intellettuale, alza il tappeto e solleva il polverone.
La base operativa della sua ricerca è Varto. Siamo nel luogo delle sorgenti del Tigri e dell’Eufrate, in una pianura bagnata dal Murat, un fiumicello le cui acque, dopo aver ingrossato il corso dell’Eufrate e attentamente evitato il Mediterraneo, incontrano il mare migliaia di chilometri più a sud-est: il golfo Persico. Perché Varto? A Varto, e in tutta l’area circostante, ci vivevano gli armeni, come testimoniano le chiese traballanti sotto i colpi del tempo. Gli armeni poi da lì furono deportati e la loro presenza è ormai un fantasma inquietante che vien su dalla terra assieme alle umide brume. Ciò che fa de Bellaigue, nella prima parte del libro, non è altro che ricostruire gli eventi del genocidio armeno dal punto di vista di questa cittadina, ascoltando le varie voci, avendo la premura di non cadere in alcuna faziosità, e non cadendo nel tranello di raffigurare gli armeni come agnelli sacrficali del turco sunnita, spietato e assetato di sangue. Si era in tempi di guerra con la Russia degli zar. Il gioco politico degli armeni, se non sporco, fu quantomeno sfortunato. Ciò non giustifica in alcun modo, sia chiaro, le deportazioni e i massacri in massa, le violenze e i crimini perpetrati dal triumvirato dei Giovani Turchi e dai predoni curdi, loro complici, contro migliaia, scusate, milioni, di innocenti. Il colpo mortale inferto all’orgoglio e alla storia della nazione armena è irreparabile e, tuttora, lungi dall’aver esaurito i suoi effetti. Ma non finisce qui.
Gli armeni non sono l’unico popolo “dimenticato” della storia turca. A Varto vivono anche (in special modo dopo la deportazione degli armeni) molti curdi sunniti (di lingua kurmanji) e molti curdi aleviti (di lingua zazaki). Gruppi che parlano lingue diverse, che seguono dottrine religiose diverse e nemiche da secoli. De Bellaigue ripercorre le complesse dinamiche dei rapporti di potere, collaborazione e sottomissione fra queste etnie e lo stato turco. Racconta la storia delle rivolte curde, da quella dello sceicco Sait (1925) a quella del PKK (1984 -…), di cui Varto fu uno de centri. Racconta il disastroso terremoto del 1966 che, come quello recente che ha colpito la città di Van, poco lontana, diede occasione di esprimersi ai rigurgiti razzisti dell’opinione pubblica turca, contro la popolazione curda e alevita colpita dal sisma. Con una prosa spesso confusa e un andamento non raramente contorto, scende nel sottobosco intricato delle tribù, delle sette, dei tradimenti, delle lotte. Si sente che la conoscenza umana di ciò di cui scrive è radicata e ricca; per di più l’autore è abile nel gioco delle parti: riesce a non schierarsi mai, anche quando, dall’intimo, la sua sensibilità sembra torcersi di rabbia per l’assurdità e la violenza dei fatti. Tenuto sotto controllo dalle sospettose autorità locali, de Bellaigue intervista sindaci, poliziotti, attivisti, guerriglieri, pastori; consulta le opere storiche che, in un gioco macabro, si contendono la bandiera della verità. A beneficio del lettore, smonta impalcature ideologiche da una parte e dall’altra. Risale alla fonte dei complessi psicologico-culturali che strutturano il pensiero di coloro che calcano od occupano la terra ribelle e mentre ricostruisce velocemente le fasi salienti della storia della Turchia, legge quest’ultima da un punto di vista laterale, minore, “dimenticato”. Se è evidente il fatto che la scrittura del libro abbia avuto un carettere catartico in primo luogo per l’autore, gli va riconosciuto il merito quantomeno di aver saputo rendere uno s
paccato sociale, culturale e storico che definire trascurato dalla storiografia mainstream sarebbe di sicuro eufemistico. Pane fresco per i neofiti, ma semplice ripasso dettagliato per chi quella “terra ribelle” la conosce e la vive.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE: Christopher de Bellaigue (Londra, classe 1971) è stato per anni corrispondente dell’Economist dalla Turchia. Dopo essersi sposato con una donna iraniana, è passato a curare la corrispondenza da Teheran, uno dei pochi giornalisti stranieri col permesso di lavoro in Iran. Terra Ribelle. Viaggio fra i dimenticati della storia turca, è stato finalista del Orwell Prize nel 2010. L’edizione da noi consultata è EDT, Torino 2011. Nella traduzione di Roberta Maresca
Fonte:Lankelot
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