Se Breivik non piange, Krekar ride

Aggiornato il 03/05/18 at 04:35 pm


di Roberto Santoro

Dopo la strage di Utoya Anders Breivik rischia al massimo 21 anni di prigione (30 forzando il codice penale norvegese), che trascorrerà in carceri dotate di tutti i comfort. Ma in Norvegia c’è qualcuno che se la passa anche meglio: un operativo della internazionale jihadista, l’emiro Krekar, che nonostante abbia ammesso di aver creato e personalmente istruito i gruppi di fuoco dell’organizzazione Ansar al Islam (costola sedicente “moderata” della insorgenza salafita in Iraq), gira a piede libero nel paese scandivano dove dal 1991 continua a godere del diritto di asilo per i rifugiati politici.
Krekar rappresenta l’anello di congiunzione tra Al Qaeda e il regime di Saddam Hussein: Saddam sapeva che le atrocità da lui commesse in Kurdistan gli avrebbero impedito di ristabilire il potere del Baath nella zona; così si era premunito di favorire la diffusione delle charities e dei gruppi umanitari e finanziari del wahhabismo nella regione curda. Il missionario Krekar arrivò in Iraq nel 1988, armato, dopo aver studiato in Pakistan abberevandosi alla saggezza di Abdullah Azzam, il mentore di Bin Laden. Krekar avrebbe incontrato Bin Laden durante un summit con ricchi sauditi impressionati dalle stragi di curdi ordinate da Saddam, che sborsarono dai trecento ai seicentomila dollari usati da Bin Laden per finanziare Ansar al Islam.

Nelle zone di confine fra Kurdistan iracheno e Iran venne introdotta la sharia, i sufi furono perseguitati, i leader politici locali uccisi e presi di mira (nonostante molti di loro avessero combattuto contro Saddam). Prima dell’arrivo degli americani, Ansar al Islam aveva impiantato un piccolo emirato in stile talebano nella zona. Dopo la liberazione dell’Iraq, l’organizzazione terroristica ha assassinato il giornalista australiano Paul Moran e nello stesso anno ha ammazzato tre persone durante l’attacco all’ufficio del dipartimento della difesa americana di Erbil. Il primo febbraio del 2004, un doppio attacco-bomba kamikaze ha spazzato via 109 curdi, compresi donne e bambini, che stavano festeggiando la ritrovata libertà dopo la fine del regime di Saddam Hussein.

Va bene l’ingenuità dettata da una diversa tradizione di filosofia del diritto, va bene il garantismo, la riabilitazione dei detenuti, il rispetto dei diritti umani: la Norvegia ha scelto di seguire la sua strada e non possiamo arrogarci il compito di giudicarla corretta o sbagliata. Ma considerati i precedenti di Krekar non stupiamoci troppo se nei primi, concitati momenti dopo la bomba di Oslo, il pensiero dei giornali di mezzo mondo sia corso subito a lui, al mullah sponsorizzato dai poteri forti wahhabiti. Non è stato un segno dell’islamofobia ma di un’avventata prudenza.

Da quando fu arrestato all’areoporto di Amsterdam-Schipol e trasferito ad Oslo, la CIA è stata tentata più di una volta di organizzare la “rendition” di Krekar, ricercato anche dalla Interpol, dalle Nazioni Unite e “perfino” da Amnesty International. Gli Usa però si sono fermati sempre all’ultimo momento perché c’era il timore che la polizia norvegese reagisse sparando contro le forze speciali americane. La Norvegia difende l’incolumità dell’uomo che la stessa corte suprema del Paese scandinavo ha recentemente definito “una minaccia alla sicurezza nazionale”. La polizia l’ha anche arrestato più di una volta e con diverse accuse ma non è mai stato sufficiente per i giudici, nemmeno quando è saltato fuori che avrebbe incontrato a Oslo uno dei sospetti della strage dell’11 Marzo a Madrid.

Per anni e anni, Krekar ha potuto muoversi e spostarsi tra Europa ed Iraq grazie al suo passaporto norvegese e alla nostra passività verso il male. Ha pubblicamente definito Bin Laden “il gioiello nella corona dell’islam” e un paio di anni fa si aggirava per le strade di Oslo atteggiandosi al cellulare e invocando un nuovo califfato islamico in Afghanistan. Ha chiesto la testa dei soldati occidentali in Iraq, non solo quella dei Marines ma anche dei civili iracheni che li aiutano, ma non c’è bisogno che Krekar prenda il mitra di persona, come ha fatto Breivik; altri lo fanno al posto suo e rispondendo ai suoi ordini. E non è solo al mondo: c’è una rete di predicatori/reclutatori che agiscono alla luce del sole, lì dov’è possibile farlo, collegati alle cellule coperte del terrorismo internazionale.

Tempo fa Krekar ha fatto una comparsata televisiva per dire che lui vorrebbe tornare in Iraq ed affrontare di persona il governo fantoccio degli americani ma che le autorità norvegesi glielo impediscono. Un ministro del governo gli ha risposto ironicamente che, se veramente avesse voluto farlo, l’esecutivo era pronto a mettergli a disposizione una macchina di lusso per facilitare la partenza. Krekar ha preferito restare nella tollerante Norvegia, processato per aver minacciato di morte i politici che lo contrastano. Il suo decreto di espulsione è ancora sul tavolo del governo.

 

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