Aggiornato il 03/05/18 at 04:36 pm
L’Opinione di Mohammad Akef Jamal
Nella apertura della tredicesima Conferenza del Partito Democratico del Kurdistan (KDP), l’11 dicembre scorso, alla presenza di 1300 membri e dei maggiori leader politici iracheni (tra cui il presidente della repubblica, il primo ministro, il presidente del parlamento e i leader dei principali raggruppamenti politici), il presidente del Kurdistan iracheno Massud Barzani (leader del KDP) ha annunciato che “il partito ritiene che la richiesta di autodeterminazione e la lotta instancabile e pacifica per raggiungere questo obiettivo si accordino con la prossima fase”.
Che i leader e i responsabili presenti fossero giunti a conoscenza o meno di quanto intendeva dichiarare il presidente del Kurdistan, questo grave annuncio li ha posti in una posizione poco invidiabile, soprattutto il primo ministro Nouri alMaliki, che è circondato da alleati che non mandano giù una rivendicazione di questo genere.
I curdi godono di una situazione eccezionale in Iraq. Non esserne soddisfatti, o considerarla una fase provvisoria in vista del raggiungimento di un obiettivo più grande consistente nella creazione di un proprio stato e nella secessione dall’Iraq, è considerato un cambiamento di posizione che suscita preoccupazione, soprattutto se si tiene conto che questo annuncio è stato accompagnato dalla rivendicazione del carattere curdo della provincia di Kirkuk. Una simile rivendicazione è considerata da importanti forze politiche irachene (prima fra tutte la lista Iraqiya) come un tabù nazionale che non può essere infranto.
Le reazioni alla dichiarazione di Barzani sono state miste. Tutti i gruppi politici curdi hanno annunciato il loro sostegno al presidente del Kurdistan ed al principio da lui sostenuto, ovvero il diritto all’autodeterminazione. Ma le altre reazioni sono state ben diverse. Alcune sono state reazioni di netto rifiuto delle affermazioni di Barzani, altre di preoccupazione, altre ancora hanno cercato di mantenere un equilibrio. Non volendo far andare in collera nessuno in questa fase estremamente delicata, il presidente della repubblica Jalal Talabani e il primo ministro Nouri alMaliki hanno mantenuto il silenzio.
Per stemperare le reazioni a questa dichiarazione, alcuni alti responsabili curdi si sono affrettati a dichiarare che quanto annunciato dal presidente Barzani è stato male interpretato, e che egli non intendeva dire che l’autodeterminazione significa la secessione della regione dall’Iraq.
Con il suo annuncio, il presidente del Kurdistan iracheno ha esposto davanti a tutti la sua visione della natura del conflitto fra Erbil e Baghdad nella prossima fase. Sarà lui a disegnare i percorsi di questo conflitto e a mantenere l’iniziativa nelle proprie mani. E’ naturale che egli abbia scelto Erbil, la capitale del Kurdistan, ed il momento più opportuno per fare questo annuncio.
L’Alleanza del Kurdistan, sebbene sia giunta al quarto posto alle ultime elezioni, grazie all’abilità e all’esperienza dei propri leader e alla debolezza e alla frammentazione degli altri è riuscita a volgere il processo politico a proprio vantaggio diventando il raggruppamento più influente pur essendo il più piccolo. D’altra parte il governo centrale, che non è stato ancora formato, lamenta già numerosi difetti e carenze poiché il premier incaricato è “ammanettato” a questo o quel partito da impegni e promesse di vario genere, ed ha un estremo bisogno di smorzare le tensioni e di non aprire un nuovo fronte di difficile gestione.
Sebbene la questione curda sia stata la maggiore preoccupazione dei successivi governi iracheni nell’era monarchica ed in quella repubblicana, in questa seconda era essa ha acquisito una nuova dimensione quando si è guadagnata sostenitori e simpatizzanti al di fuori del popolo curdo, sia all’interno dell’Iraq che all’estero. Ciò fu dovuto a diverse ragioni, tra cui una convergenza di obiettivi nell’opposizione ai regimi in carica, e la simpatia per le legittime aspirazioni dei popoli.
Nel corso dei decenni, nei tentativi di risolvere questa questione sono intervenute iniziative pacifiche e iniziative militari, a seconda della forza e della debolezza di ciascuna delle parti coinvolte, ma l’atmosfera è rimasta generalmente tesa facendo temere lo scoppio di nuovi conflitti tra le parti. Questo perché non sono state raggiunte convinzioni condivise, caratterizzate dal necessario livello di franchezza e di trasparenza.
Le risoluzioni pacifiche della questione sono state messe a punto all’ombra di accordi facilmente eludibili, in assenza di chiare garanzie costituzionali, e in assenza di garanzie internazionali.
Vi è uno spartiacque nella storia moderna del Kurdistan iracheno, ed è il 1991. Da quel momento la regione del Kurdistan ha goduto di una protezione americana che ha paralizzato le capacità del governo centrale di Baghdad. Di conseguenza, essa ha goduto di una situazione simile a quella di uno stato indipendente completamente separato dall’Iraq.
A partire da quel momento le regioni curde non hanno assistito ad alcuna guerra con il governo centrale, ma hanno registrato piuttosto un sanguinoso conflitto interno tra le due principali componenti curde: l’Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) guidata da Jalal Talabani e il Partito Democratico del Kurdistan (KDP) guidato da Massoud Barzani.
Nella fase successiva al 1991, i leader politici della regione del Kurdistan hanno perseguito politiche caratterizzate da un allontanamento dall’appartenenza nazionale irachena. La generazione che è nata e cresciuta in questa fase non si è formata, sotto il profilo psicologico e educativo, nella cornice della cultura nazionale irachena, ma nella cornice della cultura dell’etnia curda.
Quando la regione del Kurdistan è tornata a far parte del corpo nazionale iracheno dopo la caduta del regime di Saddam, si è riunita ad esso solo alle proprie condizioni. Essa è riuscita a far ciò alleandosi con i leader dei partiti religiosi sciiti che avevano costituito insieme ai curdi il nerbo dell’opposizione irachena all’estero, e con i quali si è spartita il bottino dopo la caduta del regime.
Ma queste condizioni sono estremamente problematiche, e sono destinate a creare nuove crisi invece di presentare soluzioni. L’articolo 140 della nuova costituzione incontrò forti riserve negli ambienti arabi e turcomanni. Le Nazioni Unite sono riuscite con difficoltà a convincere i leader curdi a rinviare l’applicazione dei meccanismi previsti da questo articolo, rimandando il censimento degli abitanti di Kirkuk e delle altre regioni contese dalla data originariamente prevista secondo la costituzione (il 2007) fino ad oggi.
Il diritto all’autodeterminazione è un diritto legittimo di tutti i popoli garantito dalle leggi internazionali, e non è giusto opporsi a questo diritto riguardo ad un popolo quando lo si riconosce ad altri.
Il popolo curdo non deve rappresentare un eccezione a questo proposito, qualora le sue aspirazioni vadano al di là della situazione federale che attualmente lo rende parte integrante di un Iraq unitario, qualora ciò sia nel suo interesse a breve e a lungo termine, e qualora gli equilibri regionali siano in grado di assorbire la nuova entità senza che peraltro ciò arrechi danno alle altre componenti dell’Iraq.
La battaglia per Kirkuk è una battaglia per il diritto all’autodeterminazione dal punto di vista dei leader curdi, poiché uno stato curdo senza Kirkuk non ha la garanzia di poter sopravvivere.
La produzione petrolifera di Kirkuk (670.000 barili al giorno) equivale a quasi il 27% dell’intera produzione petrolifera irachena (che è di circa 2,5 milioni di barili al giorno), ovvero a quasi il 27% dell’intero bilancio statale, considerato che il petrolio è quasi l’unica fonte di introiti per le casse irachene. Questa quota supera di molto la quota riservata alla regione del Kurdistan dal bilancio dello stato iracheno, che è pari al 17%.
Tradotto da Lana Izzadin fonte: Beyan
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