Libano, Il colore dell’identità

Aggiornato il 03/05/18 at 04:37 pm


Intervista di Erminia Calabrese
Moraz Jajan è un pittore curdo nato in Siria che vive in Libano. Attraverso la sua esperienza racconta cosa vuol dire essere un curdo in Siria e un siriano in Libano.
Come e dove è cominciata la tua carriera d’artista? Da piccolo amavo la musica e ricordo che per mio nonno questo era una vergogna. Sono nato a Hasake al nord est della Siria, un villaggio molto povero dove la gente non aveva niente e la maggior parte di loro lavorava nei campi. Quando a sedici anni ho iniziato a disegnare la gente diceva che ero un pazzo. A ventuno anni allora ho lasciato la mia casa e sono partito per Beirut portando con me i miei quadri. Ho visitato varie gallerie senza aver con me neanche un curriculum e tutte rifiutavano di offrirmi uno spazio dove potermi esibire.
Perché hai scelto Beirut?
Ho sempre visto il Libano un paese libero al contrario della Siria. In Siria non mi sentivo né libero né sicuro, mi sentivo prigioniero. A diciotto anni quando ho cominciato ad esporre i miei quadri in Siria lo facevo segretamente in casa di alcuni amici. Una volta sono riuscito a fare un’esposizione nel centro culturale del mio villaggio è venuta così tanta gente che sin dal primo giorno è arrivata la polizia, ha chiuso la mia esposizione dicendomi che io ero un curdo e che nei miei quadri rappresentavo il Kurdistan e che non potevo farlo. Poi hanno cominciato ad indagare su di me e quando ho chiesto il passaporto siriano per poter partire e cercare la mia fortuna altrove me lo hanno vietato. Mi ripetevano continuamente vieni domani e io ogni giorno ritornavo invano fino a quando stanco delle loro bugie ho deciso di andare via.
Dove sei andato?
Sono arrivato a Cipro come clandestino, sono stato in prigione e poi mi hanno espulso. Arrivato in Siria ho passato otto mesi nella prigione politica di Damasco perché ero un comunista. Dopo sono ritornato a Beirut e vivevo facendo ritratti per turisti nel centro città. Ho dormito per interi mesi in strada fino a quando il proprietario di un hotel mi ha dato una stanza in cambio di occuparmi del decoro dell’hotel.
Quali ricordi hai della tua giovinezza in Siria?
In quel periodo in Siria essere comunista e curdo era davvero molto difficile. A diciassette anni quando ho preso la tessera del partito comunista sapevo che sarei andato in prigione. Tutti i miei amici lo erano, avvocati, professori universitari. Quando hanno imprigionato anche me allora ho deciso di arrendermi e di lasciare il partito. Essere curdo è stato ancora più difficile, potevamo andare a scuola ma ci era proibito parlare curdo, in una scuola a maggioranza curda noi imparavamo l’arabo e dovevamo parlare tra di noi arabo. In quei tempi i curdi non potevano entrare all’università pubblica, molti non avevano nemmeno i documenti siriani e senza quelli non si poteva trovare nessun lavoro né lasciare il paese. Una prigione. Ricordo che molte persone nel mio villaggio avevano delle terre da coltivare la polizia e i militari siriani arrivavano, sequestravano le nostre terre per darle ai beduini. Noi stavamo lì a guardare senza poter far niente.
E la tua esperienza a Beirut?
Beirut è una città che ormai sento mia e adoro questa gente. L’unico problema che ho avuto è stato nel 2005 quando la morte di Rafiq Hariri ha scatenato una vera e propria violenza verbale in primo luogo e a volte fisica contro i siriani. Una sera di settembre di quell’anno mentre passeggiavo nella strada di Hamra sono stato aggredito. Due ragazzi si sono avvicinati chiedendomi se fossi siriano. Ho risposto si, non potevo fare altrimenti se avessi detto sono curdo avrei avuto grossi problemi coi servizi segreti siriani. Allora hanno cominciato a picchiarmi la gente guardava e nessuno osava fare niente. L’indomani sono andato alla redazione del quotidiano Assafir ho raccontato la mia storia e dopo alcuni giorni dei militari libanesi hanno sorvegliato la mia casa per mesi.
Di cosa parlano i tuoi quadri?
Nella maggior parte dei miei quadri rappresento la mia terra e il mio popolo ma parlo anche di altri paesi . Io metto in scena gli oppressi perché ancora oggi credo nell’uomo e nell’umanità. Adesso ho un atelier principale a Hamra, che ho chiamato Kushawariyye. Il Libano è diventato il mio paese.
Fonte:PeaceReporter.it

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