Aggiornato il 03/05/18 at 04:37 pm
di Gabriel Bertinetto
Avvolta dalla testa ai piedi in un pezzo di stoffa bianca, la vittima è infilata a forza in un buco scavato nella sabbia. Immobilizzata, esposta alla crudeltà dei carnefici. Rimane fuori solo la parte superiore del corpo, dalle spalle in su. Il tiro al bersaglio può iniziare. Una pietra dopo l’altra, fino a che la testa ciondola inerte sul collo ed i giudici abbiano la certezza che alla colpevole è stata inflitta l’adeguata punizione che, secondo i più retrogradi interpreti della dottrina islamica, la sharia esige in caso di adulterio.
A questo supplizio è sfuggita Sakineh Mohammadi Ashtiani, 43 anni, iraniana, madre di due figli, arrestata nel 2006 e sottoposta come primo trattamento a 99 scudisciate per avere avuto «una relazione illecita» con due uomini che avevano ucciso il marito. Non reggendo al dolore provocato dalla frusta, la poveretta confessò. Ma davanti al tribunale in un secondo momento ritrattò tutto. Aveva detto agli aguzzini quello che volevano sentirsi dire, pur che cessasse il tormento. Ma questo non servì ad evitarle la condanna alla lapidazione.
Per quattro anni, in carcere, la donna ha temuto che ogni alba fosse l’ultima della sua vita. Fino a quando, alcuni giorni fa, ha appreso che la pena era stata commutata. Sakineh però ora sa solo che di certo non sarà linciata. La sua sopravvivenza resta appesa ad un filo. Nel poco trasparente sistema penale iraniano nessuno ha spiegato cosa le accadrà, ma dalle scarne e vaghe notizie diffuse dalle autorità sembra di capire che potrebbe essere impiccata.
In aiuto di Sakineh sono mobilitate numerose organizzazioni per i diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch. La campagna di denuncia ha probabilmente ritardato i tempi dell’esecuzione e favorito la rinuncia alla lapidazione. Ora l’impegno umanitario continua per strappare la poveretta alla pena capitale. Un appello in suo favore è stato sottoscritto da quasi 90mila persone, compresi l’ex-presidente brasiliano Fernando Henrique Cardoso, lo scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, ed Ingrid Betancourt che fu prigioniera delle Farc in Colombia per sei anni.
Primi firmatari sono i figli stessi di Sakineh, la sedicenne Farideh e il ventenne Sajjad: «Il termine “lapidazione” è così orrendo che cerchiamo di non usarlo mai -scrivono-. Noi diciamo, invece, che nostra madre è in pericolo, che potrebbe essere uccisa, e merita l’aiuto di tutti. Oggi, che quasi tutte le iniziative sono arrivate a un punto morto, e l’avvocato dice che nostra madre è in una situazione pericolosa, noi ci rivolgiamo alla gente del mondo, non importa chi siate e dove viviate. Noi ricorriamo a voi, popolo dell’Iran, a tutti quelli di voi che hanno conosciuto la sofferenza e l’angoscia dell’orrore di perdere una persona amata. Vi preghiamo, aiutate nostra madre a ritornare a casa».
Il caso di Sakineh non è isolato. Proprio ieri il Comitato internazionale contro le esecuzioni, una ong che si batte contro la pena capitale nel mondo, ha rivelato che rischia la lapidazione un’altra detenuta nello stesso carcere di Sakineh, a Tabriz, nell’Iran nordoccidentale. Si chiama Maryam Ghorbanzadeh, ha 25 anni, ed è incinta. I suoi legali si sono rivolti alla magistratura chiedendo quello che solo a denti stretti si può definire un atto di clemenza: sostituire la lapidazione con la fustigazione. Una tortura non letale al posto di una tortura che provoca morte sicura.
In base ad alcuni precedenti le possibilità che la richiesta sia accolta non sono remote. Le autorità iraniane negli ultimi anni, per 13 volte hanno rivisto sentenze di donne condannate alla lapidazione. È accaduto ad esempio per Kobra Babaei, liberata dopo avere subito cento frustate.
Attualmente nella Repubblica di Khamenei ed Ahmadinejad sono pendenti almeno dieci sentenze di morte come quella che incombeva sino a pochi giorni fa su Sakineh e ancora oggi su Maryam. Tre riguardano uomini, accusati di relazioni extraconiugali. Benché venga usata soprattutto come strumento di minaccia e di violenza nei confronti delle donne, la pena della lapidazione colpisce specificamente il reato di adulterio.
Quanto risponda davvero ai dettami della religione musulmana uccidere a sassate un essere umano, è contestato dalle correnti più aperte della cultura islamica. C’è chi ritiene che sia una forma di vendetta radicata nei costumi di alcune popolazioni, ma esplicitamente esclusa dal Corano. I teologi distinguono fra precetti muhkamat (inderogabili) e mutashabehat, la cui applicazione deve cambiare a seconda delle circostanze. Alcuni appartenenti al clero sciita e al sistema giudiziario religioso si oppongono alle pene corporali. L’ayatollah Seyed Mohammad Bojnourdi, ex membro del Consiglio Supremo della Magistratura in Iran, affermò già diversi anni fa che simili punizioni crudeli danno all’opinione pubblica internazionale un’immagine distorta dell’Islam, nascondendone gli aspetti caritatevoli e misericordiosi.
Fonte: L’Unità
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